Ecco un Ep interessante nella nuova scena d’autore italiana. Questa nostra canzone che sempre più cerca di inscatolarsi dentro due direzioni portanti: da una parte l’elettronica che non da scampo. Dall’altra suoni acustici che cercano il suono popolare, la forma e il linguaggio di tutti i giorni. E il cantautore genovese Schiamazzi che cela la sua identità anche per ragioni professionali, proprio dal suo mestiere a contatto con la mente e i disagi del prossimo, trae l’ispirazione per tessere un sottile filo conduttore ad unire assieme questi 5 racconti in forma canzone, dentro i quali trovare i personaggi, le limitazioni della vita, i problemi che spesso siamo noi stessi a creare. Un lungo percorso di emancipazione per restituire verità al complesso gioco del giorno in cui siamo sempre più schiavi che protagonisti.
Mi colpisce la psichiatria e il cantautorato che in qualche modo dialogano assieme… chi ha contaminato chi?
«Dipende dal momento della giornata. Nel senso che sicuramente, parlando di contenuti e di scrittura, la Psichiatria ha molto condizionato il mio modo di scrivere, le storie che racconto e le tematiche che affronto. Il fatto stesso che io abbia iniziato a scrivere musica potrebbe essere considerato come il risultato di un’esigenza generata dal lavoro in Psichiatria. La medicina e in particolare la psichiatria hanno al centro del loro interesse la vita delle persone, per uno psichiatra poi la storia personale di chi si ha davanti è fondamentale, conoscerla e averla presente nel modo più chiaro e dettagliato possibile. Penso che questo sia un punto in comune con il cantautorato. Non si tratta solo di raccontare una storia ma trasmettere qualcosa che quella storia porta con sé, sennò sarebbe solo un elenco di fatti ed eventi a metà tra la biografia e la storiografia».
E partendo da questa chiave di lettura, da questo incontro tra le due facce della tua vita, mi chiedo quanto questa voce e la sua estetica abbiano attinto da tutto questo…
«L’estetica di Schiamazzi può risultare cupa e misteriosa: il nero, la maschera, l’anonimato, sono tutti elementi che si sono resi necessari per separare lo psichiatra dal personaggio artistico. In un certo senso non aiutano ad entrare in contatto diretto con Schiamazzi come persona, però allo stesso tempo aiutano a semplificare tutta quella parte di estetica e di apparenza che ogni personaggio si porta dietro e che a volte distoglie l’attenzione. Volevo che la voce e le storie avessero un ruolo predominante, è stato un tentativo, non so se in futuro cambierà qualcosa nell’immaginario di Schiamazzi, non lo escludo, ma per adesso sono piuttosto convinto del mio modo di raccontarmi».
Personaggi, simbolismi, luoghi e tanto altro. Una trama quotidiana che sembra sconnessa… ma in realtà esiste un filo conduttore unico?
«Tutte le canzoni parlano di libertà personale, una libertà ricercata all’interno di un contesto sociale vissuto in maniera a volte difficile e opprimente, a volte tollerato o sfruttata a proprio vantaggio. Ogni storia ha come obiettivo quello di distruggere un pre-concetto, che sia il bisogno di sentirsi speciali, di farcela a tutti i costi o la necessità di dire “per sempre”. Da questa distruzione si sente il bisogno di ricostruire qualcosa di diverso, una nuova consapevolezza».
Chi è Schiamazzi? E perché l’anonimato?
«Schiamazzi è un contenitore: a seconda di quando viene aperto e da chi può liberare tante cose diverse o accoglierne altre. Molto dipende da cosa si sta cercando. L’anonimato è necessario, rende tutto più facile, una frase come questa per esempio con il mio nome e cognome non l’avrei mai detta. Sono sempre stato affascinato da quegli scrittori che utilizzano pseudonimi, o dagli artisti che non compaiono mai in pubblico o che sperimentano liberamente nel corso della loro vita in maniera totalmente indipendente. Non so se l’anonimato mi permetterà questo ma spero mi renderà più libero di esprimermi».