Si intitola “Welcome to wasteland” l'album della cantautrice italiana
Si intitola “Welcome to wasteland” l’album di Serena, cantautrice italiana di stanza a Londra. Un lavoro in bilico tra denuncia sociale – che intacca le più basilari dinamiche del vivere quotidiano – e aspetti autobiografici di una vita in totale emancipazione nei confronti di grandi “mostri” da dover sconfiggere. Il vissuto personale dunque si incastra dentro un’ottica più generalista affidando la narrazione ad un suono apocalittico, distopico, scuro e certamente periferico. La città notturna dunque è protagonista in tutti i suoi aspetti anche dentro il bellissimo video del singolo “Streetlights”.
Raccogliamo il tuo benvenuto e devo dirti che dentro la tua personalissima “Wasteland” ho trovato tantissime nuove prospettive, tante ottime direzioni… altro che opportunità sprecate. Come mi rispondi?
«Le opportunità sprecate sono solo una parte di “Wasteland”. Waste è una parola inglese che significa anche “rifiuto”, come i quintali di rifiuti che continuiamo a produrre e disperdere nell’ambiente a noi circostante come denuncio in Wild Lavender; ma significa anche “perso”, ovvero come mi sentivo in preda all’ansia e agli attacchi di panico come racconto in Ophelia. Wasteland è un punto di partenza, è un posto dentro o fuori di noi, grazie al quale ho potuto raccontare il mio modo di vedere il mondo».
Parlaci del suono di Serena. Nasce dalla tua ricerca personale oppure hai lasciato lavorare altri alle tue ispirazioni?
«Il mio sound è il frutto di anni di ricerca, personale e musicale. Sono nata e cresciuta in Italia, ho vissuto negli USA ed ora in UK e tutti questi viaggi ed incontri con persone e realtà differenti dalla mia hanno arricchito il mio modo di pensare e quindi comporre».
E poi questo video, inglese fin dentro il suo DNA. Dunque esiste ancora qualcosa di italiano dentro il tuo modo di pensare alla musica oppure non c’è più alcuna traccia?
«Domanda interessante, non saprei qual è la cosa “più italiana” della mia musica (lingua a parte). Mi piace pensare sia l’ importanza che do alle parole quando scrivo i testi e la cura dei dettagli nel creare la parte visiva dei miei pezzi dai music video ai photoshoot alle copertine».
Ma nello specifico qual è la terra delle opportunità sprecate: Londra o Roma (per citarne solo le capitali)?
«Temo sia ovunque ci troviamo e ci lasciamo sfuggire tra le mani qualcosa che vorremmo fare terribilmente. Ma nel mio caso, come canto in “Streetlights”, ero consapevole di perdermi le opportunità che avevo davanti. E se quindi è una scelta ponderata, possiamo ancora definirla un’occasione sprecata?».
Qualcuno ha parlato di consapevolezza. Qualcun altro di emancipazione. Io parlo di un lavoro ampiamente sociale. Parlando di te in fondo stai parlando di noi…
«Esattamente, alla fine parlare delle proprie esperienze personali non è un estraniamento, bensì un tramite per raccontare la società in cui viviamo, essendo appunto essere sociali».
E tutto questo nero attorno al suono? Accenderai la luce presto?
«C’è bisogno che io l’accenda? Credo si debba affrontare le tenebre più oscure per scoprire davvero la luce. E nelle mie canzoni mi premuro comunque di metter sempre uno spiraglio di luce verso la fine, un po’ un modo per dire “ecco, la parte più difficile del viaggio la facciamo insieme, ti terrò la mano, il resto so che sei forte abbastanza per farlo da sola”».