Mario Martone per Il Giovane Favoloso ha avuto una nomination al Leone d’Oro alla 71a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Un film che avrebbe dovuto vincere tutto per svariati motivi tra cui si deve obbligatoriamente annoverare sia la bravura immensa di Elio Germano, che stupisce ad ogni sua prova, che il meraviglioso intellettualismo di Mario Martone il quale accosta musica classica a musica d’avanguardia, il teatro al cinema, cita Jules e Jim, crea delle vere e proprie poesie in immagini, inquadrature perfette e impalpabili.
Il motivo, però, che scavalca tutto e tutti è il personaggio storico di cui tratta il film: Giacomo Leopardi. Un uomo che viene giustamente dipinto come un ribelle, costretto in un ambiente piccolo e provinciale come quello di Recanati, all’interno dello Stato Pontificio, dove vive con il padre Monaldo succube della moglie Adelaide Antici, entrambi conservatori, molto religiosi e severi. Giacomo legge un po’ di tutto, attingendo alla vastissima, ma poco aggiornata, biblioteca del padre e sprofondando per sette anni in quello che lui stesso definì, in una lettera a Pietro Germani, uno studio matto e disperatissimo e che andò a minare definitivamente il suo stato di salute già precario e fragile.
E’ proprio questa fitta corrispondenza con Germani che lo aiuterà a conoscere il nuovo che avanzerà in lui sempre più prepotentemente fino addirittura ad attuare un tentativo di fuga, nel luglio del 1819, purtroppo sventato dal padre. All’età di 24 anni riesce, finalmente, ad andar via da Recanati dove “non c’è uno che si curi di essere qualche cosa […]” e dove “l’unico divertimento è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia”.
Da qui è un susseguirsi di pubblicazioni non sempre ben accettate dalla critica, di avventure e sogni di gloria, di amicizie (in primis Antonio Ranieri, nobile napoletano), infatuazioni e, in una parola, egli abbraccerà la vita in cui c’è sempre di tutto e anche di più.
Avrà gravi problemi di salute e notevoli tormenti fisici che lo accompagneranno fino alla morte ma non cederà mai alla pietà altrui, “non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto”. Non venderà mai le sue idee e sempre piena sarà la sua sete di conoscenza che lo identificheranno come un poeta precursore del Novecento nel collocare il dubbio al centro della conoscenza: “Chi dubita sa, e sa più che si possa”.
La sua esistenza si chiude alle pendici del Vesuvio e, in quest’ultima parentesi di vita, dopo aver assistito ad un’eruzione del vulcano, scriverà la sua summa letteraria: La Ginestra con la quale il film si chiude. Martone ritrae Leopardi pieno zeppo di vita, lo dipinge come un personaggio scomodo perché scava, attraverso la sua opera, l’animo umano, lo viviseziona senza ritegno, induce, costringe a riflettere. Va contro l’inebetito e indebolito progresso perché: “Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici”.
In un solo film spazza via quell’immagine scolastica e stupida dei vari pessimismi leopardiani. Un’opera intellettuale nel senso più alto del termine perché non elitaria, che fa conoscere i nostri straordinari miti.