C’è voluto un gruppo indie rock di Beirut per contrastare lo strapotere dell’industria musicale del mondo arabo. Si chiamano Mashrou’ Leila, sono cinque ragazzi con stile e idee chiare che stanno creando molto rumore in entrambe le sponde del Mediterraneo. Un po’ per il loro rock, che usa elementi folk locali e ambientazioni internazionali, un po’ per il loro messaggio dirompente. Li abbiamo incontrati durante il recente tour italiano per il lancio del disco autoprodotto Raasuk, che ha stabilito il record arabo per un crowdfunding (60mila dollari). Ne abbiamo parlato con il fondatore Mashrou’ Leila, il violinista Haig Papazian e il cantante, apertamente gay (lo sottolineamo solo per le conseguenze che la notizia porta nel suo paese), Hamed Sinno.
Che impressione vi fa esibirvi in Italia dove nessuno capisce le parole delle canzoni?
Haig: «Siamo venuti in estate al Florence Film Festival e abbiamo avuto una bella accoglienza. Tutto quello che si dice dell’Italia è vero, l’ospitalità e la gente così incoraggiante…questa volta abbiamo avuto la possibilità invece di fare un tour anche nelle piccole città dove non eravamo ancora stati. Perché ci siamo esibiti nelle grandi capitali ed è lì che molti arabi ci vengono a vedere. Ma sentire il calore e l’entusiasmo anche nei piccoli centri è straordinario. Per noi il regalo più grande è proprio il coinvolgimento anche se non si capisce il testo, perché è la musica che parla.»
Ora che state avendo successo in Europa vi siete chiesti se è il caso di incidere in inglese?
Hamed: «Non crediamo sia la cosa giusta perché ci ho messo molto tempo a imparare a scrivere in arabo e voglio continuare su questa linea.»
Haig: «Anche se lo facessimo in futuro tradiremo il nostro intento che era fin dall’inizio della nostra attività nel 2008 quello di avere una musica araba che fosse diversa da tutto l’arab pop. Siamo cresciuti con canzoni false, che parlavano di amore finiti bene e vita bella che non aveva nessun collegamento con la realtà. Quindi vogliamo fare musica araba che tratti temi diversi.»
Che cosa vi spinge a essere così contro l’arab pop?
Haig: «Abbiamo fondato una campagna sui social chiamandola #occupyarabpop perché non so se voi lo sapete qui, ma da noi le case discografiche e i talent show hanno creato un’industria di controllo che lancia divi in 20 paesi contemporaneamente. Sono tutti uguali, e le donne sono tutte in qualche modo assoggettate a una dittatura visiva. Si fanno plastiche facciali per assomigliare a un canone di bellezza. Anche a noi è stato proposto di stravolgere la nostra musica e il nostro look e ci siamo ribellati.»
Pensate di rappresentare una generazione?
Haig: «I media semplificano il concetto di Primavera araba, è molto più complicato, ovviamente noi siamo usciti nel momento in cui l’occidente si è accorto che succedeva qualcosa di nuovo e noi siamo contenti di aver squarciato un velo sulla cultura giovanile araba. Ora c’è più interesse a livello globale per quello che accade. Ma la primavera è ancora troppo fresca per capirne il senso, solo col tempo si delineerà il cambiamento.»
Come vivete a Beirut?
Hamed: «Ci sono molti mondi diversi, è anche un posto dove ci sono molte influenze specie ora con tutti gli esuli siriani che arrivano nel paese. Per noi è una città molto aperta ma basta girare l’angolo per trovare la mentalità conservatrice. C’è ancora molto da fare.»
All’estero siete contenti di ritrovare il calore arabo ai vostri concerti?
Hamed: «In verità noi cerchiamo di fare cross-over con la musica perché vogliamo conquistare tutti non solo i connazionali. Infatti dopo i concerti riceviamo tante email di persone che si complimentano e non hanno famigliarità con l’arabo. Il punto di forza è sulla musica, sul mix di generi, vecchio e nuovo non esiste per noi.»
Eppure avere un violinista ha del sapore vintage…
Hamed: «Non credo che il violino sia necessariamente uno strumento vecchio, dipende da come lo usi. Per noi è importante l’emozione che crea il brano e quando ci sono cori e danze agli spettacoli sappiamo che l’obiettivo è raggiunto. Ecco, vedere i corpi che si muovono è un bell’obiettivo.»
Siete al corrente della musica mondiale o vi siete persi qualcosa?
Haig: «Non pensare che siamo vissuti all’oscuro di tutto, sappiamo bene cosa è successo nel rock fino a oggi. Abbiamo sempre curiosità per la scoperta ma partiamo dall’amore per i Pink Floyd e i Beatles per arrivare al jazz e all’indie rock americano. Recentemente abbiamo avuto l’onore di lavorare a una cover con Nile Rodgers che è una leggenda per noi.»
Avete ambizioni?
Hamed: «Certo, arrivare a quante più persone è possibile e mantenere la nostra musica in evoluzione. Vogliamo toccare varie strumentazioni, entrare a contatto con persone di varia estrazione e mantenere il nostro pop fresco e giovane. Se continuiamo così possiamo sempre contare sul dare e avere che si stabilisce col nostro pubblico. Forse è questa l’ambizione più grande.»