Tratta dall’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis, “La regina degli scacchi” non è solo il ritratto di un enfant prodige che riesce a riscattarsi da un’oscura storia di abbandono e tragedia, affermandosi grazie al suo talento formidabile per gli scacchi e incontrando, insieme al successo, anche il vizio, e, insieme al glamour, la dipendenza da alcol e psicofarmaci. Ideata da Scott Frank e Allan Scott è arrivata su Netflix il 23 ottobre 2020, suscitando da subito un grande scalpore.
La piccola Beth, rimasta orfana di madre a seguito di un incidente provocato dalla madre stessa, viene accolta in un istituto cristiano, il Methuen Home for Girls dove un’impeccabile istitutrice educa le sue ospiti a comportarsi a modo a suon di vitamine e «pillole che regolano l’umore». Inizia così il “romanzo di formazione” di Elizabeth Harmon, dagli anni del collegio e la scoperta della sua destrezza nel gioco degli scacchi, insegnatole dal custode Shaibel. Tutto cambia quando, a quindici anni, Beth viene adottata dai coniugi Wheatley, Alma e Allston, e si ritrova a fare i conti con una nuova “famiglia”, che, nonostante all’apparenza possa sembrare tradizionale e benestante, in realtà nasconde i propri problemi. Allston e Alma sono infatti in procinto di lasciarsi e poco dopo l’arrivo di Beth, il signor Wheatley partirà per Denver, abbandonando la moglie, dipendente dall’alcol e affetta da forti emicranie, e la nuova figlia. Ma il suo allontanamento gioverà alle due donne che, ritrovatesi sole, stabiliranno un nuovo sodalizio ponendo le basi del futuro successo di Beth, che riprenderà a giocare a scacchi e si iscriverà ai tornei locali.
Beth Harmon, la protagonista, ha tutto quello che serve: la grinta di chi vuole arrivare fino alla fine, far vedere al mondo quanto vale; un passato difficile, che ancora non riesce a superare del tutto e che torna fuori negli incubi quotidiani; lo charme che la porta ad avvicinarsi a tutti senza però mai raggiungere davvero nessuno (e qui emerge tutto il suo lato più tormentato) e, infine, la spirale di dipendenza da ansiolitici e alcol, l’unica apparente fonte di salvezza dal dolore e dallo stress che la attanagliano. Un mix perfetto che porta lo spettatore ad affezionarsi sempre di più, tifando per la sua causa.
Scott Frank, sceneggiatore e regista, ha saputo utilizzare soluzioni drammaturgiche sempre capaci di fondere racconto e rappresentazione, rendendo avvincenti anche e soprattutto le partite di scacchi, in quanto lo spettatore viene come catapultato nella mente della protagonista e osserva i veloci spostamenti di pedine che prendono piede nella sua immaginazione (con tanto di flashback alle giocate d’infanzia), prima ancora che sulla scacchiera.