Vittorio Storaro, uno dei più grandi autori della cinematografia, in occasione della decima edizione del Social World Film Festival ha ricevuto il Golden Spike Award alla Carriera, che si va ad aggiungere ad altri riconoscimenti, tra cui tre premi Oscar per Apocalypse Now (1980), Reds (1982) e L’ultimo imperatore (1988).
«Ricevere un premio mi rende sempre molto felice, perché significa che delle persone hanno notato un certo tipo di scrittura con la luce, quindi attraverso il riconoscimento vogliono sottolineare questo tipo di creazione che è stata realizzata e lo vogliono fare attraverso la consegna di un simbolo che potrebbe essere una statuetta o altro. Accetto ben volentieri questi riconoscimenti, non tanto per il numero perché ne ho abbastanza, ma per il fatto che mi fa molto piacere che viene capito e sottolineato il percorso figurativo».
Tra i suoi progetti in corso, in questo periodo è in corso a Roma, presso il Palazzo Mareluna, in programma fino a domenica 1 novembre, la mostra “Vittorio Storaro: Scrivere con la Luce”. Un titolo che evidenzia quanto il maestro non ami essere definito “direttore della fotografia”, infatti in collegamento con la sala stampa del Social World Film Festival, Storaro afferma: «Non scrivete direttore della fotografia, quello proprio non lo sono. Il fotografo fa la fotografia, noi che lavoriamo per il cinema realizziamo una serie di immagini, quindi il termine giusto è cinematografia. Un film è come un’orchestra composta da tanti solisti e un solo direttore. Per me è una forma di rispetto verso il regista e il suo lavoro. Io non voglio chiamarmi come lui, perché lui è quello che ci dirige, io sono un solista, come lo scrittore, il montatore, lo scenografo.
Nel corso del collegamento Vittorio Storaro mostra alle sue spalle una copia del dipinto La Vocazione di san Matteo, realizzato tra il 1599 ed il 1600 da Caravaggio. «Per me Caravaggio è e sarà fondamentale nella mia vita, perché mi ha insegnato il linguaggio della luce, un linguaggio universale. All’epoca Caravaggio era un autore a tutto tondo. Lui sceglieva il tema, gli attori, la composizione, il tipo di luce. Non usava fare come gli artisti accademici, ovvero disegnare prima di dipingere, bensì lui li guardava, non direttamente, ma tramite uno specchio. Guardando in uno specchio, Caravaggio riusciva a capire la composizione del dipinto. Quindi lui era un vero cinematografo».
Grazie allo studio, alla passione e all’amore per la cinematografia, Storaro è riuscito in 50 anni della sua carriera a lasciare una traccia del suo operato, diventando un punto di riferimento per tanti giovani che oggi vogliono avvicinarsi al mondo della settima arte. «A tutti quelli che amano la cinematografia e vogliono intraprendere il mio lavoro, consiglio innanzitutto di studiare, frequentando dei corsi appropriati, come ad esempio il Centro Sperimentale di cinematografia, che io ho frequentato negli anni ’70. Ma non serve a nulla studiare se poi non mettiamo l’amore in quello che facciamo. Io sono stato fortunato, poiché ho sempre amato quello che pian piano sono diventato, tanto da non distinguere più, il lavoro dalla vita privata. Quando sono a lavoro o sono in casa a giocare con i miei nipoti, sono sempre lo stesso. La mia parte privata e la mia parte pubblica non ha differenza».
Prossimamente sarà al cinema con il film “Rifkin’s Festival” per la regia di Woody Allen, ma non è l’unico progetto che vedrà impegnato Vittorio Storaro nei prossimi mesi.
«Nel periodo del lockdown ho scritto un libro che parla della mia vita con Bernardo Bertolucci, ed ho preparato una mostra fotografica che racconta la nostra collaborazione, spero si faccia. Inoltre sto restaurando di nuovo i dieci film che ci hanno visto insieme. A tal proposito mi sto impegnando sulla conservazione dei film, perché in Italia non c’è ancora, come in altri Paesi europei, un sistema di conservazione delle immagini».