Dal 18 al 30/11/2014 il Teatro Bellini ci invita ad essere voyeur più del solito, più di ogni immaginaria aspettativa. Scevra dal dolore e dalla sofferenza, in elegante abito da sera, assistiamo alla violenza comodamente seduti in poltrona, lontani dal carico emotivo che essa genera se siamo noi ad esserne toccati. E così, con Arancia Meccanica – (di Anthony Burgess) per la regia di Gabriele Russo, con le magnifiche scene di Roberto Crea e con l’ottimo disegno luci di Salvatore Palladino – assistiamo alla sublime estetica della brutalità alla stessa stregua di quando guardiamo, nell’ennesima commemorazione, il disastro tragico e la distruzione delle Torri Gemelle. Assuefatti dai media, inebetiti e superficiali se togliessimo l’audio e mettessimo ad alto volume una sinfonia di Beethoven cosa vedremmo? Gente che danza.
E così che filmiamo tutto e tutti mentre si picchiano, fanno sesso, si stuprano. Tanto siamo solo spettatori, tristi, tristissimi voyeur che agitano solo la loro protesi cellulare. Burgess, come pochi altri artisti, l’ha vista lunghissima e con un idolatrato distopico romanzo, a cui seguì il capolavoro assoluto di Stanley Kubrick, ha spiazzato la società mettendola alla berlina con una semplice domanda.
Cos’è la libertà, in nome di essa posso io liberamente scegliere di uccidere, fare coscientemente del male? O devo essere “salvato” e costretto ad una retta via che non sento assolutamente? Razionalmente potremmo anche favorire la libera scelta, sperticarci in fighe lotte sociali discutendo di qua e di là di quanto siamo così e colà. Ma la realtà la esprime benissimo uno dei protagonisti a cui hanno stuprato la moglie che poi si suicida per lo shock. Si lancia alla difesa dell’assassino ma, quando scopre chi è e cosa ha fatto alla sua famiglia, cambia radicalmente e tenta lui stesso di uccidere il suo aguzzino. Per cui, sinceramente, la risposta è sì, la violenza va sempre e comunque “corretta”, allontanata, trasformata perché sempre e comunque esisterà e, sempre e ovunque, ci saranno degli ebeti che la seguiranno e la ameranno infinitamente perché basta realmente poco per far sentire superiore una caccola. Siamo tutti “strani come un’arancia ad orologeria” (il titolo originale in inglese del libro era A Clockwork Orange, una frase Cockney – un termine inglese che si riferisce sia alla classe proletaria di Londra, in particolare della zona Est, sia al dialetto parlato da quelle persone), giocattoli a molle caricate da Dio, dal Diavolo, dallo Stato, dalla Fede Calcistica, da una qualsiasi inutile e frustrante cosa che riempia i nostri vuoti esistenziali altrettanto inutili. Per cui…VIVIAMO e non diamo fastidio please.
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