Con “A cure for wellness”, film uscito nel 2016, il regista Gore Verbinski, alle prese con un soggetto originale scritto di proprio pugno insieme allo sceneggiatore Justin Haythe, sorprende tutti con un incubo contemporaneo dalle indubbie potenzialità per diventare un classico del genere. Il prologo espone da subito, con la sola ed innegabile forza delle immagini, il tema portante del film, la critica al capitalismo, all’ossessione dell’arrivismo sociale e la tensione ad una purezza, quella cristallina dell’acqua, destinata a sfuggirci.
Dane DeHaan è Lockhart, giovane broker di Wall Street che, su richiesta dei dirigenti della società per cui lavora, parte alla volta di una clinica del benessere situata in una remota località svizzera, dove si trova Pembroke (Harry Groener), l’amministratore delegato dell’azienda.
Quando il giovane giunge all’istituto, un vecchio castello in mezzo alle Alpi, il clima è sereno tra i pazienti. I trattamenti sono effettuati con l’acqua che scorre nei sotterranei della clinica, i cui effetti dovrebbero essere miracolosi, ma l’impressione è che li facciano stare sempre peggio. Costretto da un incidente stradale a essere ricoverato, Lockhart ha la possibilità i scoprire i misteri dietro la storia del castello, del suo proprietario, dell’acqua miracolosa e delle tossine che contiene, con l’aiuto di una ragazza, la bellissima e inquietante Hannah (Mia Goth), e l’eccentrica signora Watkins (Celia Imrie) che ha condotto alcune indagini per conto proprio. In breve tempo il direttore dell’istituto, il sinistro Dottor Volmer (Jason Isaacs), diagnostica a Lockhart la stessa patologia di cui soffrono gli altri pazienti. Il giovane capisce di essere prigioniero nel ritiro alpino e inizia a perdere il contatto con la realtà e ad affrontare i terribili trattamenti alla base della cura.
Il pessimismo esibito dal film è opportuno; è una visione sofferta che suggerisce come vana sia la speranza nella vita eterna e inevitabile l’accettazione della nostra condizione, imperfetta, dolorosa e corrotta.