Vincenzo Metalli, classe 1969, si appassiona alla musica all’età di 12 anni, iniziando a suonare la chitarra prima da autodidatta e poi con un maestro, per poi dedicarsi alla scrittura e composizione dei suoi primi pezzi. Delle sue canzoni Metalli dice: “Parlano di odori, di sangue e sudore!”. Di recente ha pubblicato il suo album d’esordio “Malavia” (Enjoy All Music Edizioni) con la produzione dell’amico Ludovico Caifasso e la collaborazione artistica di Paolo Del Vecchio, che ne cura gli arrangiamenti.
A fine mese uscirà il tuo nuovo lavoro discografico “Malavia”, ci parli di questo nuovo progetto?
«L’idea del progetto risale a circa 6 anni. Fui iscritto a mia insaputa da una amica (Rebecca) che mi mise a conoscenza a fatto compiuto. Lo vinsi. Da allora, spinto da alcuni partecipanti a continuare e ad insistere perché ritenevano ci fosse del bello nella mia scrittura sia musicale sia nella prosa. La prima band “CARNAVIVA” si formò per caso; andai a delle prove di amici gli stessi che mi chiesero di suonare qualcosa di mio la sera stessa. Furono probabilmente incuriositi da quello che facevo. Si formò da sola la band e dopo poche prove suonammo a piazza Dante in occasione di Telethon».
Alcuni pezzi sono quelli scritti nel corso degli anni, quali sono gli ultimi che hai realizzato?
«Avevo 17 anni quando scrissi Masaniello. MALAVIA risale a circa 20 anni fa. Sara ne ha 8 Così come Nanni’; ‘E lampare; siente. Nun è dulore è più recente, ha circa 5 anni. L’ultimo nato è Spina ‘e rosa. Lo scrissi intanto si lavorava agli arrangiamenti prima di andare in sala a registrare».
Questo è il tuo primo lavoro discografico, cosa rappresenta per te? Come mai hai aspettato tutto questo tempo prima di realizzare un disco?
«Non ho aspettato per fare l’album. È nato e basta. Non pensavo di farne uno. O forse si. Quasi come il famoso sogno nel cassetto. Cassetto aperto nella mia solitaria mia malinconia così come nei momenti bui come quelli fatti di gioie. Insomma, un cassetto che mi ha accompagnato nel corso della mia vita a prescindere dal momento storico-emotivo…».
Il disco si avvale della collaborazione artistica di Paolo Del Vecchio, che ne cura gli arrangiamenti. Come è nata la collaborazione?
«La collaborazione con Paolo Del Vecchio avvenne in un locale dove ospita musica Live (nevermind) dove si esibiva con la band. Fui rapito da subito. Chiusi gli occhi e pensai: comme me piacesse che i miei pezzi suonassero così. Lo contattai e fu amore a prima vista. Il lavoro di preproduzione doveva durare tipo 3 mesi. Non fu così. Paolo diede più disponibilità (impegni permettendo) perché riteneva che il progetto meritasse più attenzione. E così che nasce la collaborazione ed il nostro cammino augurandoti sia duraturo».
Unisci la world music al blues metropolitano, con testi poetici e riflessivi. Quanto i tuoi viaggi hanno influito sul tuo stile musicale?
«Sono stati significativi i viaggi intrapresi per il modo in cui concepisco la musica , esempio: a Los Angeles cantavo i miei brani e, nonostante non conoscessero la mia lingua (Il napoletano) le persone si fermavano a filmare e a registrare con telefonini, video camere etc… accogliendomi in modo caloroso volendomi nelle loro feste private a Santa Monica; Beverly Hills, Hollywood aprendomi le porte delle loro case. Nel centro Africa fui accolto con lo stesso calore oltre al fatto che nella loro precarietà mi facevano sentire ricco in tutto i sensi soprattutto emotivamente. Voglio dire che la musica, intesa come aria, arriva prima della prosa, sebbene dia una importanza equa. Di influenze ne ho avute anche se in tutta onestà, fosse per me scriverei come Steve Wonder; poi prendo a scrivere ed esce quello che si sente e non lo cambierei per niente al mondo. Lo stesso mi succede con la tela: parto per fare una cosa e stesso il pennello ed i colori fanno tutto al posto mio. Il messaggio è mai darsi per vinti.
“Malavia” è anche il brano di apertura dell’album. Parla di libertà e invita a vivere senza maschere, senza confini, uscendo da vicoli bui. Che tipo di messaggio vuoi lanciare con questo brano?
«Essere osservatori di ciò che ci circonda per avere più possibilità di scelta. Che non è mai troppo tardi. Che se si ha voglia di ribellarsi ad uno stato di prigionia venutosi a creare con le proprie mani e non solo, tutto può essere capovolto avendo la volontà di farlo. Farlo significa avere gli strumenti e uno degli strumenti primari, secondo me, sono i libri. Qualsiasi essi siano. Basta che allenino la mente».
“Masaniello” è un omaggio a Renato Carosone, un brano che canta l’insoddisfazione e le fatiche quotidiane, la sofferenza di chi vive nella speranza di un futuro migliore. Chi potrebbe essere il Masaniello della tua canzone?
«Il Masaniello a cui faccio riferimento sono tutte quelle persone che nonostante le insicurezze; la precarietà; le incertezze continuano ad andare avanti e a continuare a credere. In che cosa, non saprei. Ma a credere. Ed io credo nei giovani. Il mondo è nelle loro mani. Mi piacerebbe che prendessero come esempio un tutor che non fosse un venditore di “fumo”; un ciarlatano. Che non prendessero parte ad un mondo fatto di poliestere e tacchi a spillo o fatto di pubblicità. La vita è altro: è concretezza. Fatta di sogni e speranze si, ma senza rimanere aggrappate ad esse. Pensare a realizzare il realizzabile senza peccare di onnipotenza».
“Siente” sembra una ninna nanna, un consiglio a sognare un nuovo domani. A chi è dedicata questa canzone?
«Il brano Siente, è appunto una esortazione per i più giovani alla riflessione e all’altruismo. Mai alla chiusura mentale».
Hai già suonato dal vivo alla Mostra d’Oltremare e il 26 ti esibirai al Nevermind. Quanto conta la dimensione live per te?
«Il live per chi suona è come acqua per un assetato».
https://youtu.be/94BhguCRmOA