Lorenzo Richelmy, che abbiamo apprezzato nel ruolo del giovane scrittore Andrea Serrano nel film “Doceroma” del regista Fabio Resinaro, si definisce un viaggiatore prima ancora che un attore. Viaggiando per il mondo ha ritrovato se stesso e la sua dimensione, ed è proprio grazie a questa sua esperienza che oggi riesce a ricoprire dei ruoli molto lontani dalla sua realtà e dal suo modo di essere: «Dolceroma – afferma Richelmy – mi ha dato la possibilità di interpretare in Italia un personaggio che non fosse italiano e questo è veramente raro». Ospite alla nona edizione del Social World fil festival, l’attore italiano racconta della sua passione per il teatro e dei prossimi progetti a cui sta lavorando.
Quanto è importante parlare di tematiche sociali nel cinema e in televisione?
«Secondo me, soprattutto oggi, i temi sociali sono fondamentali per far avvicinare le persone al cinema. Abbiamo molti esempi di film hollywoodiani, che per carità sono molto fuochi d’artificio, però ti rappresentano sempre una realtà completamente diversa da quella che viviamo noi. Mentre sia il coraggio e la voglia di far vedere delle storie che parlano di noi è il motivo per cui il cinema esiste, soprattutto il cinema italiano, quello degli anni ‘50, ’60, ’70, in cui si parlava di vita vera, di operai, di storie di famiglie, trattando temi anche difficili. L’Italia è cresciuta con il cinema, anche con la televisione. Secondo me adesso che abbiamo finito un po’ quel periodo in cui cercavamo di imitare gli americani, stiamo realizzando più film di genere, con delle storie che ci appartengono. Quindi più si realizzano film di questo tipo e più si fa il mestiere del cinema che è cultura».
Il team di quest’anno del Social World Film Festiva è il viaggio. Cosa rappresenta per te questa parola?
«Prima di essere attore sono viaggiatore. Ho avuto la fortuna di fare Marco Polo, la serie Netflix sul grande viaggiatore e esploratore, però io ho sempre detto che quello mi era capitato perché ho viaggiato molto prima. Ho avuto la fortuna che il compagno di mia madre fosse un grande viaggiatore, quindi da quando sono piccolo, ogni estate sono andato per più di un mese in India, visitando di volta in volta tutto il sud est asiatico. Quando ho fatto il provino per Marco Polo, ho precisato che io fossi nato lì, ovviamente scherzando, per puntualizzare che conoscessi meglio bene la location. Il viaggio per me è una dimensione ottimale perché siamo sempre stati abituati a vivere una vita statica, tra la città, la famiglia, il posto di lavoro, le proprie abitudini. Rompere queste abitudini vuol dire capire chi siamo. Ritrovarti in un posto in cui non devi pensare a cosa mangiare, ai tuoi familiari, alle cose di tutti i giorni, ma ritrovarti dall’altra parte del mondo, da solo e con te stesso, credo sia la libertà più grande che un individuo possa avere. Viaggiando ho ritrovato me stesso. Sono una persona romantica e molto spesso amo viaggiare da solo, perché quando vai in compagnia degli amici, vivi una situazione completamente diversa, uno si fa forza sull’altro e non ti metti veramente in gioco. Quando sei da solo in una città straniera, una parte del mondo che non c’entra niente con te, vuol dire che ti stai mettendo in gioco».
Sei reduce dal successo del film Dolceroma, in cui ti abbiamo visto nei panni del protagonista. Cosa ha rappresentato questo lavoro per te?
«Per me è stato un film molto particolare, perché innanzitutto è un film strano. Chiunque l’abbia visto l’ha definito un film di genere, ma neanche troppo predefinito. Fa parte di quei lavori di cui sono molto orgoglioso di averne fatto parte perché si lancia verso quello che potrebbe essere il cinema italiano del futuro. Secondo me Fabio Resinaro che l’ha diretto e anche Barbareschi che l’ha prodotto sono stati anche molto coraggiosi nel parlare anche del mondo del cinema che moto spesso è infiocchettato. Bisogna essere sempre mettere in luce questi mondi molto belli, ma che spesso nascondono cose molto brutte. Sono molto affezionato al personaggio che ho interpretato in Dolceroma, questo ragazzo molto giovane che vuole fare lo scrittore, circondato da una serie di business che non hanno nessuna voglia di sentire lui cosa abbia da dire, che però viene coinvolto in una storia particolare. Dolceroma mi ha dato la possibilità di interpretare in Italia un personaggio che non fosse italiano e questo è veramente raro».
Il tuo personaggio è quello del giovane scrittore Andrea Serrano vorrebbe essere il protagonista e lo scrittore della propria vita, ma per diversi motivi si sente solo una comparsa nella vita di qualcun altro. Tu invece sei soddisfatto di come stai scrivendo la tua vita?
«Sono sempre molto positivo e cerco sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno, anche perché prima o poi le fesserie le facciamo tutti quanti, anche i più grandi, quindi l’importante e andare avanti e ricordare le cose belle. Inutile piangersi addosso per gli errori commessi, rischiando di farne degli altri. Molto spesso restiamo fermi a pensare alle cose negative, a quelle che sono andate male, togliendo del tempo e spazio alle cose positive che potrebbero succedere. Sono molto fiducioso in quello che può succedere nell’incontro con le persone. Questo è uno dei motivi per cui ho accettato l’invito al Social World Film Festival. Non sono uno che sta fermo a casa sua. Sono uno che ama uscire, muoversi, conoscere persone, chiacchierare in piazza con gli amici. Nonostante stiamo vivendo un periodo di individualismo, in cui tutti anche sui social puntano ad essere delle star, scoprendo poi che dietro c’è poca roba, per fortuna ci sono ancora persone che credono nell’unione, nel team, per realizzare delle cose belle insieme».
Hai esordito all’età di otto anni nello spettacolo teatrale “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus” di Elio Vittorini, per la regia di Italo Spinelli. In futuro ti vedremo nuovamente a Teatro?
«I miei genitori sono attori di teatro, quindi è una dimensione che vivo costantemente. Io vivo a Roma, una città che sta vivendo un periodo molto difficile per quanto riguarda il teatro, rispetto a Napoli, Milano, in cui il teatro sta andando benissimo, e di questo non può farmi che piacere. Mi piacerebbe tornare, però mi dispiacerebbe di portare in scena un lavoro televisivo. Molto spesso vai a teatro e ti propongono degli spettacoli, e il tuo pensiero va al fatto che tranquillamente avresti potuto vederlo in televisione. C’è un vecchio detto che dice: “Nessuno attore dovrebbe avvicinarsi al palcoscenico senza avere l’attenzione del funambolo”. Venendo da una famiglia di teatranti, vado molto spesso a teatro, e nell’ultimo periodo tutto quello che ho visto mi ha annoiato da morire. E questa è una cosa che non può esistere. Perché se tu vedi un attore che sta recitando con passione non ti annoi. Vorrei tornarci, ma prima voglio trovare le persone giuste per affrontare questa dimensione. A fare teatro da solo mi sentirei un po’ sperduto. Non avrebbe neanche senso mettermi in scena insieme ai miei, quindi sto aspettando il momento giusto, perché un peccato tornare alla mia vecchia passione e non dare il meglio o farlo male».
I tuoi genitori hanno appoggiato la tua scelta artistica?
«In realtà i miei non erano contenti che facessi l’attore. Avendo dovuto lottare tantissimo, non desideravano lo stesso percorso per il figlio. Quindi da una parte hanno dimostrato la loro disapprovazione, dall’altra quando hanno visto alcuni miei lavoro, si sono dimostrati particolarmente orgogliosi. Il lavoro purtroppo non è tantissimo e le persone che cercano di fare questo lavoro sono tante, ma questa non è una situazione che riguarda solo l’Italia, se vai a Los Angeles è ancora peggio. Oggi è molto difficile avere una continuità lavorativa».
A quali progetti stai lavorando in questo periodo?
«Sono tornato dalla Nuova Zelanda per la serie Disney “Il Triangolo”, in cui ho interpretato un ruolo di un pirata di 300 anni. Al momento hanno realizzato la puntata pilota, poi bisognerà capire se la produrranno o meno. Questa è una delle cose che possono succedere agli attori della nuova generazione, un po’ perché sanno l’inglese e un po’ perché si lanciano nel campo americano. E poi è divertenti perché lavori ad un prodotto che neanche lo penserebbero qua in Italia, come un film con i pirati. In Italia dovrebbe uscire “Sanctuary”, una serie svedese, in lingua inglese, girata in Trentino, con tutti attori inglesi, tranne io che ero l’unico italiano. è una serie Rai ambientata in un manicomio, dove appunto il mio personaggio è quello di un pazzo, mi sono divertito davvero tanto».
C’è un ruolo che ti piacerebbe interpretare?
«Sì, quello di un transessuale, perché si tratterebbe di arrivare a fare qualcosa lontano da me. Purtroppo la comunità LGBT, in autodifesa hanno deciso che solo un transessuale, può interpretare un ruolo del genere, che a mio parere non ha moto senso, perché altrimenti si perde la figura dell’attore».