Big Eyes è il nuovo film diretto da Tim Burton? Chissà! In questo racconto realmente accaduto tratto dalla storia della pittrice Margaret Ulbrich (88 anni) le cui opere, tra gli anni ’50 e ’60, divennero famosissime, nulla trapela della regia di Burton se non degli occhioni disegnati a matita in qualche scena.
Il regista è amico della pittrice e acquirente di alcune opere. La storia è di quelle che superano la fantasia; Margaret (la sempre brava Amy Adams) lascia il primo marito e cerca di darsi da fare per mantenere sé e sua figlia attraverso la pittura, sua grande passione. Incontra così Walter Keane (un istrionico Christoph Waltz), pittore di tante speranze e nessun talento tranne una smodata ambizione e l’assoluta capacità di sapersi vendere a tutti i costi. Keane spaccerà per quasi dieci anni le opere della moglie per sue dando vita ad un impero economico basato sulla più grande bugia dell’arte contemporanea (chi si ricorda del tormentato J.T. Leroy autore di Ingannevole il cuore più di ogni cosa?).
Anche il film inizialmente doveva essere diretto (per la produzione sempre di Tim Burton) da quelli che poi sono diventati gli sceneggiatori: Scott Alexander e Larry Karaszewski. E’ qui forse l’inghippo di un film che lascia perplessi perché nulla toglie e nulla mette alla storia del cinema e alla storia artistica di Tim Burton lontano anni luce dai titoli che lo hanno imposto come uno dei registi più visionari, dark e poetici di tutti i tempi.
Una riflessione, quindi, sullo scambio di identità, sul cosa è tuo e cosa è mio senza, però, una reale risposta. La dicotomia esiste perché entrambi gli elementi sussistono, probabilmente Margaret Ulbrich (a prescindere dalla condizione artistica femminile che, purtroppo, solo negli ultimi decenni ha imposto la figura della donna in ambiti di potere) non avrebbe mai avuto quel successo enorme e inaspettato per opere considerate anche kitsch e troppo sentimentali se non avesse incontrato il suo secondo marito. Entrambi si compensavano e quello che non aveva uno, l’altro ne possedeva in abbondanza.
Una donna forte e coraggiosa, una femminista involontaria che semplicemente viveva e agiva facendo e credendo nelle uniche due affermazioni della sua vita: la figlia e il disegno che l’hanno portata a vincere una causa milionaria nel modo più semplice possibile (almeno per lei): disegnando. La stessa sorte non tocca al film che doveva vedere Burton solo come produttore affidando, quindi, il compito della direzione agli sceneggiatori perché, in questo caso, per loro non c’è stata compensazione ma solo un grigio tentativo di scimmiottare il Burton-style attraverso piccoli frame che potevano tranquillamente essere tolti. Ma è Tim Burton e qualcosa lascia sempre.