«Un cantautore non può fare altro che parlare di se stesso, quantomeno per riuscire a guardarsi allo specchio», racconta il cantautore e compositore, Riccardo Ceres in occasione dell’uscita del suo quarto album dal titolo Spaghetti Southern pubblicato da Soundfly. In Spaghetti Southern, il disco della maturazione artistica, Ceres narra del suo sud, quello della solidarietà, del cuore, la parte migliore dell’Italia e allo stesso tempo il sud emblema del lato positivo di ogni uomo. Il cantautore campano invita tutti a partire dal basso punto di partenza per salire poi verso l’alto. L’album racchiude dieci brani dai testi incisivi le cui sonorità spaziano tra blues, jazz, psichedelia, rock, un ottimo disco attraverso il quale Riccardo Ceres dimostra di essere un artista dallo stile inconfondibile: «Quando scrivo canzoni immagino una storia, quando scrivo storie lo faccio ascoltando musica, in genere sempre lo stesso brano in genere jazz old school, Coltrane/Davis e i loro blues. Per dirla in maniera semplice “mi faccio i film” con la mia musica e le mie sceneggiature, i miei film». Alla realizzazione di Spaghetti Southern hanno collaborato eccellenti musicisti come Fabio Tommasone (Rhodes piano, Hammond), Raffaele Natale (batteria), Vincenzo Lamagna (contrabasso), Ciro Riccardi (tromba, flicorno), Andrea Russo (fisarmonica), Artan Tauzi (violoncello) e Rebecca Dos Santos (percussioni).
Spaghetti Southern è il titolo del tuo nuovo disco, un omaggio al Sud che lotta in maniera estenuante, simbolo della solidarietà e metafora del lato migliore di ognuno di noi. È un disco che rispecchia il tuo pensiero. Racconta anche il tuo vissuto?
«Sono una persona semplice. Tutte le mie canzoni parlano di me, altrimenti farei un altro mestiere. Un cantautore non può fare altro che parlare di se stesso, quantomeno per riuscire a guardarsi allo specchio. Quando si parla con se stessi bisogna essere onesti. Gli specchi sono disgraziati, soprattutto in questi tempi. Potrebbero riflettere cose sbagliate. In realtà la lingua italiana è talmente perfetta che permette agli specchi di riflettere. Sarebbe bello lo facessero più persone».
“Tutta colpa del mare” è un pezzo blues intenso, in cui il mare raffigura la vita con i suoi imprevisti. Un mare calmo che cambia e da mosso diventa tempestoso. Quanto c’è di Riccardo in questo brano?
«Siamo in un paese quasi circondato dal mare. Noi siamo in un paese che esiste perché il mare ci ha graziati. La terra esiste perché il mare ha deciso di fermarsi. Siamo fatti di acqua ed il mondo per la maggiore è fatto di acqua. Siamo attaccati alla terra, ma solo per un piccolo pezzettino. Tutto il resto è mare. Il mare è l’unica autostrada, strada su cui è dato perdersi. – Acqua, acqua ma niente da bere. Come diceva Coleridge ne “La ballata del vecchio marinaio”. Solo quando ti perdi in quello che credi puoi essere te stesso. Il mare ci da questo e spesso non ce ne accorgiamo. Noi italiani siamo un popolo di distratti, per tradizione. O per finta».
“Coyote”, colpisce per la sua complessità, fonde il blues e il rock e presenta sfumature di musica etnica. I suoi versi mostrano un linguaggio allusivo: “come i lupi con i conigli discesero dalla collina”. Chi sono i lupi e chi i conigli?
«I lupi sono quelli che ululano, ma non più per amore. Non lo fanno neanche di notte guardando la luna. Son cani che abbaiano e non mordono. Sono solo minacce. E di queste minacce non ha più paura nessuno. I conigli sono quelli che corrono, sono la nostra salvezza, e non nell’accezione di persone pavide. I conigli osservano, brucano, masticano la vita. Si guardano attorno. Ma sono talmente piccoli che a volte si fa fatica a considerare il loro contributo al ciclo della vita importante. Se sei un pezzo di merda sicuramente sarà più facile stare con i lupi. Ululare non fa più tendenza».
“Chiedilo alla polvere” delinea il periodo irto che l’Italia sta attraversando negli ultimi anni contraddistinto da giornate afose e irrespirabili. È la fotografia del nostro tempo?
«Non sono un fotografo, sono un cantautore. Ho una grande opportunità, mentre un fotografo nel suo scatto può esprimere solo un concetto io posso raccontare qualcosa in più, anche se non serve. Ma mi sento più tranquillo. In realtà ho voluto solo raccontare la mia estate. Ed estati che non condivido. Soprattutto quelle che non condivido. Perché non c’è sentimento, perché non c’è più l’Italia che va a mare, che andava a mare. Rimane solo l’ennesima trasposizione della possibilità economica delle persone che affermano cosa possono permettersi o meno. Il mare come al solito passa in secondo piano, che tristezza».
Spaghetti Southern è un album affascinante musicalmente, che sperimenta generi e stili disparati. Ad esempio “Con un se” intreccia il jazz, il blues e il rock, “Vado a Milano” mescola blues, rock e psichedelia, “Amore tosse e fumo” unisce il blues al jazz. Quanto conta l’ispirazione e lo stato d’animo mentre si compone?
«Questo non lo so. Mi chiedi delle cose a cui non so rispondere. Quello che faccio lo faccio e basta. In realtà non ricordo nulla di certi brani. E credo meno io ne sappia meglio è».
“Santa Muerte”, solare e calda, è una ballata folk latina ispirata alla musica dei Mariachi. Come è nata?
«Il folclore delle tradizioni nel linguaggio del sud è importante. Io non sono un credente, mi spiace, potrebbe dar fastidio. Il sud è due anime, una completamente dedicata alla religione che ha paura della religione, dei santi, fondata sul senso di colpa. Ed un’altra assassina che non se ne frega di niente. Io mi ritengo un credente, credo nella storia e nelle parole antiche. Credo nelle parole, soprattutto».
La tua voce forte e profonda presenta similitudini con quella di Paolo Conte e ricorda quella di Fred Buscaglione. Quanto hanno influito questi due artisti nel tuo modo di fare musica?
«Grazie per il paragone, sono due grandi della musica italiana e soprattutto del cantautorato, che oggi pare essere scomparso. In generale non amo i paragoni, soprattutto per la forma canzone. Ogni cantautore scrive le sue storie ed essendo ognuno di noi diverso dagli altri, credo, sia meglio ascoltare che paragonare. Ho, comunque, fatto girare i dischi di entrambi. Buscaglione l’ho ascoltato più per diletto, scanzonato e legato ad un periodo storico in cui le “gangster story” erano molto in voga; Paolo Conte è diverso, testi e musiche sublimi, raffinati e sicuramente più attuali. Ma non mi sento di dire di essere vicino né all’uno, né all’altro. Ascolto molto jazz, quello di Davies, Coltrane, Adderly, Ribot e per il resto, in ordine sparso: Waits, Tenco, Ciampi, Dalla, The doors, Soul Coughing e chiaramente tanti altri. In realtà il mio ascolto dipende dallo stato d’animo del momento. Ma sono convinto che sempre ti rimanga qualcosa di una gran canzone, inconsapevolmente».