Made in the sixties è il titolo dell’ultimo lavoro discografico di Mike Sponza. Un album che il bluesman dedica agli anni ’60, prendendo in considerazione eventi, fatti, persone, culture, idee. Dieci brani, uno per ogni anno, in cui Mike Sponza utilizza linguaggi musicali diversi, dal rock al latin, dal pop all’acustico, dal soul al rock’n’roll.
Un lavoro da cui si evince la tua passione per gli anni ’60. Oltre al fatto che sei nato in quel periodo, cosa ti ha spinto a realizzare un disco su quel decennio. Dove hai tratto ispirazione?
Sono sempre stato attratto da tutto quel mondo culturale legato agli anni Sessanta dalla musica ai film, dalla moda al design… Ho semplicemente deciso di trasformare questa specie di “ossessione” in un’idea per sviluppare delle canzoni: l’incontro con Pete Brown – icona del rock blues inglese – ha dato il via alla creazione dei brani. È stato un decennio di grande progresso in tutti i campi, ed ancora oggi sentiamo gli effetti di quel periodo: sicuramente alcuni aspetti di quel periodo non sono mai passati di moda e testimoniano come sia stata una decade ricca di “instant classics” in tutti i campi dell’espressione umana. Alcuni di noi cercano di rivivere quelle sensazioni, forse a causa del vuoto spinto che la quotidianità propone in questi anni: allora ci si ispira a quella musica o a quei film, si recuperano elementi della moda e del design, ad esempio.
Anche “Made In The Sixties” è stato registrato agli Abbey Road Studios. Ci parli dall’incontro con Rob Cass alla collaborazione con Pete Brown?
Ho registrato ad Abbey Road il mio album del 2014 “Ergo Sum”, e ci sono tornato per “Made In The Sixties”. L’incontro con il produttore Rob Cass è stato fondamentale per portare la mia musica in quel luogo “sacro”: ci siamo conosciuti tramite un amico musicista, mentre cercavo un produttore per l’album che volevo registrare a Londra. Per MITS, Rob mi ha fatto conoscere Pete Brown, e da lì è nata la collaborazione. Abbey Road è tuttora il più grande studio di registrazione al mondo e gli standard sono elevatissimi – quando un disco esce da lì, suona alla grande.
Com’è stato collaborare con Pete Brown?
Pete ed io ci siamo conosciuti proprio per scrivere le canzoni di questo album, presentati dal produttore. È stata una cosa incredibile, comporre insieme ad un’icona del rock blues di tutti i tempi, quello che ha scritto pezzi come “White room”, “Sunshine of your love”, “I feel free”. Tutto è avvenuto su un piano paritetico, e la simbiosi autorale è stata intensa.
Dall’uscita ad oggi, com’è stato accolto il tuo lavoro dal pubblico europeo?
C’è stata un’ottima accoglienza e l’interesse del pubblico per gli argomenti delle canzoni è fantastico. Il pubblico del blues è spesso composto da “sixties girls and boys” che si ritrovano nei testi e che conoscono bene i fatti narrati. Anche il pubblico più giovane è coinvolto da tutte le storie che racconto nelle canzoni, che per molti di loro sono nuove e mai sentite.
Dopo l’uscita del disco hai iniziato i live tra Italia, Croazia e Germania. Dove proporrai la tua musica nei prossimi mesi?
Il calendario dei prossimi mesi include diversi paesi europei – club, festival. La scena blues europea è attiva e vivace e non ci si annoia. Stiamo pianificando la release del disco in Gran Bretagna e ci sarà uno showcase in un club a Londra. Diciamo che i programmi fino ad aprile non mancano…
Nel corso della tua carriera hai collaborato con Dana Gillespie, Georgie Fame, Lucky Peterson, Louisiana Red. Cosa ti ha lasciato ognuno di questi artisti?
Ognuno di loro vive il blues in modo diverso, sia artisticamente che come percorso di vita. Mi hanno tutti mostrato una diversa prospettiva, che mi ha non solo arricchito, ma mi ha anche fatto capire chi sono e come esprimermi musicalmente. Dalla profondità immensa di Louisiana Red all’energia moderna di Lucky Peterson. Dalla raffinatezza di Georgie Fame, alla libertà espressiva di Dana Gillespie.
Il tuo sogno di fare musica ti accompagna dall’infanzia. Ma quando hai capito realmente che la passione potesse concretizzarsi in una professione?
Appena ho comprato la mia prima chitarra. È stata una rivelazione e non ho mai cambiato idea. La musica è stata al centro della mia vita, da quel giorno fino ad oggi.
Cosa ti lega particolarmente al blues?
Amo l’immediatezza con cui ci esprime attraverso il vocabolario musicale del blues: l’energia che riesci a convogliare in questo genere musicale è senza sovrastrutture o filtri. E questo influisce anche sullo stile di vita…
La chitarra, oltre ad uno strumento cosa rappresenta per te?
Parafrasando Edoardo Bennato, direi che la chitarra è una spada…E in effetti per me è sempre stato un elemento inseparabile per farmi strada nella vita, oppure per difendermi nei momenti di debolezza. È un oggetto fantastico, misterioso, indomabile, che ti costringe ad andare sempre avanti e a migliorarti ogni giorno.
Con quale artista ti piacerebbe collaborare in futuro?
Mi piacerebbe collaborare con artisti che ascolto da molto tempo, penso ad esempio a Paul Weller, o al più recente Gary Clark Jr. Vorrei anche avvicinarmi alla scena rap: grazie a mio figlio ho scoperto artisti interessanti con cui farei volentieri della musica.
Parlando della tua dimensione live. Tu sei un artista che gira molto e conta diverse esibizioni dal vivo. Ci parli un po’ della tua esperienza sui palchi?
La mia prima esibizione live risale a circa 33 anni fa… anche se ero molto giovane, fa comunque impressione!!! Da quel momento in poi, ce ne sono state di migliaia di serate. Ognuna di esse aggiunge un pezzo al puzzle – non si finisce mai di imparare, di affinare le tecniche, di migliorarsi. E l’esperienza si arricchisce.
Un incontro o un evento che ti ha emozionato particolarmente nel corso della tua carriera.
Sicuramente il mio primo incontro con il blues, quello vero… a 17 anni andai a sentire Louisiana Red e Carey Bell, due leggende del blues, in un piccolo club di Trieste. Fu una rivelazione! Poi incontrai Louisiana Red qualche anno dopo e suonammo molte volte insieme.