I brani che hanno preceduto il lancio del suo nuovo album D’Io sono probabilmente i più emblematici della sua carriera fino ad ora. Dargen D’Amico, rapper e produttore milanese, classe 1980, fa parte del music business fin dal 2000 quando ha fondato il progetto Sacre Scuole. Poi la produzione, Andrea Nardinocchi, Two Fingerz, Club Dogo. Fino ad arrivare ad Amo Milano e La Mia Generazione, i singoli di un nuovo album appena uscito che sono un manifesto del nostro tormentato e affascinato presente.
Sei celebrato per la tua scrittura, in che momento sei ora?
«Questo progetto si contraddistingue per la sua particolarità, non ci sono ospiti come nel precedente, non ci sono degli obblighi contrattuali come ce li ha Laura Pausini. Mi sono guardato molto all’interno e sono arrivato a fare anche un brano generazionale. Non c’è una gara tra le generazioni, in fondo credo siano tutte uguali. La mia canzone non è un selfie, è una panoramica di tante foto.»
Come scegli gli argomenti di cui parlare?
«Sono tutti insoliti, spero abbiano un fascino che non mi faccia apparire seduto sugli allori. In generale credo che il rap italiano, anche se sta antipatico a molti, debba essere riconosciuto come genere con dignità, anche se ci saranno gli indie rock che ne aspettano la carcassa da un momento all’altro.»
Come descriveresti D’Io?
«Idealmente penso sempre che la mia musica sia bella da lontano, questo disco è bellissimo e credo mi avvicini sempre più a quello che voglio essere. Ma probabilmente quando mi piacerà qualcosa in maniera soddisfacente sarà pronto per la pensione. Io rubo tutto, in quanto a ispirazione e qui c’è molto di quello che mi piace.»
Come nascono le tue canzoni?
«Non essendo un musicista solitamente registro idee nel cervello e ci penso, ci rifletto e inciso solo quando la loro permanenza è fastidiosa.»
«La copertina rimanda a visioni celestiali, è una provocazione?
Uso metafore della spiritualità legate alla cultura di questo paese. La religione quando è raccontata mostra sempre i suoi limiti.»
Hai anche incluso un pezzo strambo che si chiama La Lobby dei Semafori, che vuol dire?
«Non riusciamo ad autoregolamentarci e quindi abbiamo bisogno dei semafori. Loro ci ostacolano nella vita di tutti i giorni e mi fanno arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti.»
Chi è il tuo pubblico?
«CI sono ascoltatori che mi hanno seguito in maniera intensa, sanno tutto di me e hanno fatto un percorso con me, un nucleo che vuole sempre sapere tutto e capire dove sta andando il progetto. Altri poi sono incuriositi a tratti e va bene così.»
Nel disco non ci sono parolacce eppure su iTunes c’è l’avvertimento per “contenuti espliciti”. Come lo spieghi?
«Non c’è una sola parolaccia, lo so, anche se quando suona bene va usata secondo me. Secondo me è un retaggio della volgarità a cui è associato il rap fin dalla fine degli anni Settanta. Che secondo me è anche la sua forza, il suo essere “contro”. Ma l’importante è poter scegliere il contenuto che più ci piace. Anche nel panorama italiano è così, si può andare da Al Bano a Gaber.»