«“Sirene” è un disco sulla schiavitù: la schiavitù delle donne trattate come “bestiame” da un sistema che sfrutta la loro bellezza e la schiavitù dell’uomo che diventa “burattino” nelle mani di una donna che sfrutta la propria bellezza». Queste le parole con cui il cantautore Aldo Granese descrive il suo terzo lavoro discografico dal titolo “Sirene”, uscito lo scorso 27 aprile. Il disco è stato anticipato nel 2007 dell’album d’esordio “Per tutti i miei rifiuti, per i vini già bevuti…“, seguito nel 2012 dal secondo lavoro discografico “L’arpa dai fili di ferro“. “Sirene” è un concept album che affronta in 10 tracce la tematica della prostituzione, la realtà controversa di questo mondo, osservato, attraverso più racconti, dai punti di vista più diversi con uno stile di scrittura chiaramente ispirato alla vecchia scuola cantautorale italiana filofrancese e a quella nordamericana.
Sirene è un concept album dedicato al tema della prostituzione, raccontato in dieci tracce. In che modo ti sei avvicinato alla scrittura di tale tematica?
«Ho sempre scritto di qualsiasi argomento. Quando, da ragazzo, non avevo impegni di sorta a monopolizzare il mio tempo, giravo con un taccuino ed annotavo ogni aspetto interessante della realtà che mi circondava e nove volte su dieci gli appunti diventavano canzoni. Con “Sirene” è avvenuta la stessa cosa. Una sera di circa cinque anni fa, percorrendo in auto (forse di ritorno da uno spettacolo) una zona degradata della periferia di Napoli nord (area nella quale il “fenomeno” della prostituzione è “di casa”), concepii il testo di “Tango delle sirene” e lo trascrissi quasi per intero non appena giunto a casa. Allo stesso tempo gli creavo l’abito musicale. Pensai che sarebbe stato giusto inserirlo in un contesto più ampio che non si limitasse ad una singola suggestione. Avevo già altro materiale, altri brani composti in precedenza che poi sono confluiti nel disco, ma questa canzone l’ho vista come manifesto dell’insieme. Scrissi poi “Le labbra di Lucia” e “Il pasto delle sirene” completando il quadro».
Come mai hai scelto proprio di dedicare l’album ad un particolare universo femminile?
«Perché da “eroe romantico” non tollero i soprusi! Scherzi a parte, la chiave di lettura è proprio questa. “Sirene” è un disco sulla schiavitù: la schiavitù delle donne trattate come “bestiame” da un sistema che sfrutta la loro bellezza e la schiavitù dell’uomo che diventa “burattino” nelle mani di una donna che sfrutta la propria bellezza. Non so se ho reso l’idea…»
Il tuo è uno stile di scrittura ispirato alla vecchia scuola cantautorale italiana filofrancese e a quella nordamericana. Chi sono i tuoi artisti di riferimento?
«Un po’ tutti quelli che rientrano in questi macroinsiemi e non solo… spesso si da per scontato che mi ispiri a Fabrizio De André e/o a Bob Dylan. Io credo che questi due personaggi siano un punto di riferimento per tutti coloro che si rapportino alla scrittura di “Canzoni” di un certo tipo. “La vecchia scuola italiana” per me è, ovviamente, anche Lucio Dalla, Francesco de Gregori, Guccini, Vecchioni, Paolo Conte, il grandissimo Giorgio Gaber (i primi che mi vengono in mente!), ma il cantautorato non credo che sia morto lì: ci sono tanti artisti contemporanei decisamente validi e interessanti: Capossela, Van De Sfross, Mannarino (giusto per citare quelli che è impossibile non conoscere!). Adoro Brassens e lo ascolto preferendolo alle impeccabili versioni italiane che ci ha tramandato l’immenso Faber. Poi c’è Cohen (che credo sia nel cuore di tutti, sicuramente nel mio), Johnny Cash, Bruce Springsteen… e per non dilungarmi troppo, mi fermo qui».
Gestisci uno studio di registrazione, la “Diaspora Factory” ad Avellino. Quanto è difficile produrre e promuovere musica oggi. E quali sono i pro e i contro per un giovane artista?
«“Produrre” musica è possibile per me solo se l’artista che mi si propone è in linea con il mio modo di vedere la musica, altrimenti si tratta di una semplice “prestazione d’opera” e nient’altro. Di promozione non mi occupo. I “pro” per un giovane artista sono senz’altro rappresentati dalla possibilità, ormai alla portata di tutti, di realizzare un lavoro che corrisponde a sufficienza a ciò che si ha in testa e dalla facilità di farsi sentire da un numero di persone impensabile per il passato, i “contro” sono che, nell’esagerata quantità della proposta, è difficile essere visti e sentiti da chi potrebbe farti “decollare” sul serio… praticamente due facce della stessa medaglia!».
Insegni anche in diverse scuole di musica. Che tipo di docente sei e cosa riscontri nell’approccio alla musica delle nuove generazioni?
«Io sono un docente tendenzialmente di stampo tradizionale, avendo fatto studi classici, ma sono molto aperto e attento a ciò che viene proposto al mio vaglio critico dai ragazzi più giovani: alcuni allievi mi hanno fatto conoscere tante belle realtà, delle quali altrimenti sarei completamente all’oscuro. Per quanto riguarda il loro approccio, debbo dire che molti cominciano lo studio della musica perché, vedendo quell’artista più o meno scadente nel talent del momento e non sentendosi da meno di lui, si sentono spinti a cominciare un percorso… il che è triste pensando che la mia generazione si rapportava ad artisti “di prima classe” e si sentiva “in dovere” di entrare in gioco solo perché aveva qualcosa da dire».
Tantissimi sono i riconoscimenti che hai ricevuto nel corso della tua carriera. Cosa rappresentano per te?
«Bellissimi ricordi di persone e situazioni… trasmissioni emozionali che probabilmente hanno alimentato la mia voglia di continuare a dedicarmi alla musica e alla scrittura di canzoni».
Quali i tuoi prossimi progetti?
«Sto già lavorando ad un nuovo disco “Granelli di polvere” sul tema della “morte eroica”, ma, nell’immediato, sto producendo il nuovo singolo del “Canto dell’Upupa” un duo di allieve che ritengo molto meritevoli… speriamo bene!»