Si capisce che Mark Ronson è all’apice della sua carriera nel 2015. Si capisce da come è assonnato al veloce incontro con la stampa italiana, da come sia stritolato da impegni in ogni parte del mondo. Trionfatore ai recenti Brit Awards con Uptown Funk (miglior singolo inglese uscito poco prima di Natale) e con un album vendutissimo Uptown Special, ha trovato la sua vena migliore: il funk e l’r’n’b di sapore Eighties.
Ti ha sorpreso il successo di questo disco?
«Sapevo che se volevo lasciare un segno con un mio prodotto nel 2015 doveva essere qualcosa di speciale. Perciò mi sono affidato a Bruno Mars, al produttore Jeff Bhasker e ai testi di Michael Chabon, che è un autore letterario. Avevo la tentazione di fare un disco che trattasse tutti temi uguali ma quando ho scritto Uptown Funk mi sono reso conto che non potevo cantare solo di come ci si sente a entrare in un club.»
Sei famoso come produttore e come artista solista. È una doppia vita artistica?
«Ovviamente la gente mi ha conosciuto per Amy Winehouse con la quale non ho pututo collaborare ulteriormente per ovvi motivi. Penso che con Bruno potrò ancora dar vita a qualcosa di notevole, perché alla base c’è grande amicizia. Oggi che i miei dischi sono più venduti di alcuni per i quali ho lavorato solo alla produzione sembra molto inusuale. Il mio lavoro primario rimane comunque quello di fare dischi con gli altri.»
Come scegli le collaborazioni?
«Se c’è feeling e un background comune mi inizio a interessare, parlo con gli artisti, nei festival, nei bar, generalmente inizia così. Bisogna partire sempre dai gusti musicali e dalle buone canzoni che si vuole fare assieme. Ma non mi offendo se lavoro con artisti che dopo un disco decidono di andare avanti per la loro strada. Non ci ripetiamo, e solitamente lavoro con gente che ama prendersi dei rischi.»
C’è molto della black music degli anni 80 nel tuo Uptown Special, è la musica che sentivi da piccolo?
«Io ero fissato con l’hip hop di New York, ascoltavo tanta radio, vado indietro fino ai Beastie Boys. Poi ho scoperto le grandi star del Blue Note anni 60 e mi sono invaghito del loro stile, anche scenico, il modo elegante in cui si presentavano. Penso che le radici del disco siano in quel tipo di r’n’b americano che negli anni Ottanta non era poi così commercialmente riconosciuto, cose tipo quelle degli Zapp.»
E poi sicuramente ci sono riferimenti a Michael Jackson…
«Adoro quello che ha fatto Michael ma forse nel modo in cui ho curato l’album c’è più ammirazione per la produzione, quindi per Quincy Jones. Poi Bruno ha questo modo di cantare, questa sensibilità che è molto simile a quella di Michael. Quando senti che i bambini di 4 anni lo cantano come allora facevano con Michael Jackson significa che c’è qualcosa di straordinario.»
Il tuo sogno da produttore, se potessi tornare indietro nel tempo?
«I veri grandi eroi per me sono persone come Stevie Wonder che non avrebbero certo voluto me alla produzione, facevano tutto da soli. Sono onorato che abbia accettato di suonare l’armonica nel mio disco, ho mandato una richiesta al suo manager e non sapevo come sarebbe andata a finire. Un altro artista che mi sarebbe piaciuto produrre è sicuramente Biggie (Notorious BIG, ndr).»
I tuoi singoli fanno numeri enormi sulle piattaforme web, cosa ne pensi?
«Che a me interessa far ascoltare la mia musica a quanta più gente è possibile quindi non mi interessa in che forma o modo. I lati positivi e negativi si equivalgono ma il web è democratico e non mi lamento di questo.»