Se non avete ancora visto “Mia Madre”, uscito nelle sale lo scorso 16 aprile 2015, andate al cinema quanto prima.
Che amiate o meno Moretti, non importa: questo film racconta la vita nelle sue banalità e solo questo conta. Per usare una frase alla Nanni che proprio durante i ciak di questa pellicola consigliava a un attore di recitare “sorridendo triste”, mi permetto di affermare che “Mia Madre” è “semplicemente complesso”.
Il regista di “Caro diario” è riuscito a stupire ancora una volta: in questo film si ride tantissimo, grazie soprattutto alla grande interpretazione di John Turturro e si soffre in maniera proporzionale alle risate che vengono regalate nel corso della storia. È possibile dire in effetti che scena dopo scena vien fuori la gratuità stessa della vita.
La storia che Moretti racconta è autobiografica, ad interpretare il ruolo di protagonista però troviamo Margherita Buy. Ecco così un gioco di ruoli: la Buy è Nanni Moretti, Nanni Moretti interpreta il fratello della protagonista, l’uomo che vorrebbe essere ma non sarà mai.
Tanto intimismo, tanta verità nella caratterizzazione del personaggio. La Buy nel film è una regista: somiglia in moltissime cose a Moretti, ciò che li differenzia è che sta girando un film che Nanni non farebbe mai.
Facile per chi ha visto sia “La stanza del figlio” che “Mia madre” cercare paragoni e simmetrie per entrare meglio in questo lavoro. In entrambi i film si parla di una perdita, solo che nel primo Nanni raccontava le sue paure, in questo esorcizza concretamente il lutto materno avvenuto quattro-cinque anni fa, avvenuto proprio durante le riprese di “Habemus Papam”.
Nessun retorica sulla morte né tantomeno sulla vita. Tanti piccoli particolari, dettagli irrilevanti del nostro quotidiano che permettono allo spettatore di identificarsi con qualsiasi personaggio.
Possiamo essere Turturro, che interpreta l’attore americano assetato di realtà, Margherita Buy che cerca di spiegare inutilmente al suo cast la differenza e distanza tra attore e personaggio. Ancora, possiamo immedesimarci in Nanni, il fratello ingegnere che vive calcolando ogni futuro minuto della sua esistenza.
Oppure (e in questo c’è per me la chiave del film), possiamo identificarci nelle due figure chiave di tutta la storia, figure apparentemente marginali rispetto alle altre eppure essenziali dall’inizio alla fine.
Possiamo indossare i panni di Giulia Lazzarini, che è la madre di Nanni, e vivere con lei aspettando il domani. Possiamo introdurci nella giovanissima Beatrice Mancini, che nel film è figlia di Margherita e soprattutto nipote della Lazzarini e capire e soffrire con lei prima che le cose le vengano dette.
Se non avete visto ancora “Mia madre”, fatelo presto: a fine proiezione vi sentirete completamente svuotati. Non vi spiego il motivo, non è possibile spiegarlo. È vero: “le parole siano importanti” e anche in questo film i dialoghi di Nanni regalano sempre una miriade di spunti di riflessioni.
Di alcune cose però non si parla: non troverete parole e retorica sul dolore, solo un modo (magari sbagliato) di affrontarlo e basta senza dargli un nome, anche perché non ne basterebbe solo uno.