Come le onde del mare in tempesta che viaggiano irruenti verso confini inesplorati, esce a Sud di nessun Nord, il nuovo lavoro discografico di Antonio Pignatiello. Il cantautore dell’Irpinia è in circolo dal 21 aprile con un disco anticipato dal singolo Lontano da qui. Un viaggio che si muoverà a ritmi esponenziali e di affascinante interesse. Dodici brani che donano un’identità dai mille intrecci, a cui Antonio Pignatiello traccia come filo conduttore il viaggio , insieme al tema dell’incontro. A Sud di Nessun Nord ci regala l’ascolto di un timbro musicale che intona storie multivariegate costruite dagli incontri casuali , di cui ognuno si è vestito di meraviglia e ricordo. Un album che vede la collaborazione di Taketo Gohara, produttore del suono di Vinicio Capossela, a Sud di Nessun Nord nasce “on the road”, nel corso di un viaggio in penisola rendendo sommamente omaggio all’omonima opera di Henry Charles Bukowski.
Antonio Pignatiello, lei viene definito ingegnere del suono, un appellativo che trovo azzeccatissimo. A Sud di nessun Nord, direi, infatti che esprime in merito, un intreccio a tre “V”: vivo, vivace, vibrante. Quanto dona della sua anima a questo nuovo disco?
«Mi piace pensare la parola anima ricorrendo alla sua radice. Gli antichi ci parlano dell’anima come un soffio di vento, un’aura, che si sente ma non si vede. Venendo da Lacedonia, paese esposto ai venti, non posso far altro che augurarmi che quel “soffio” possa accompagnare queste canzoni verso altri orizzonti lontani. La ringrazio per le tre “V”.I “paesaggi sonori”, d’altra parte, sono la prima fase della seduzione.»
Il titolo a Sud di nessun Nord è la chiara indicazione di un viaggio in musica. Posso chiederle se cela anche un significato sociale?
«Alla base del viaggio e dell’incontro c’è l’idea dell’ospitalità e della condivisione, tematiche antiche, che appartengono alle nostre radici, anche se talvolta coloro che ci governano dimenticano il passato. C’è sempre più bisogno di costruire una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione. Molti popoli sono costretti a scappare dalla guerra in cerca di una vita migliore.E sono temi questi che ritroviamo anche nei libri omerici che hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi la zolla di terra su cui è stata fondata tutta la letteratura successiva: da Virgilio ad Ariosto, da Dante a Joyce.Se dovessi scegliere un verso su cui costruire la mia idea “sociale” sicuramente citerei questo verso di Omero che si trova nell’Odissea; a parlare è Nausicàa, si rivolge così alle ancelle, spaventate alla vista di un naufrago straniero (Odisseo)“…è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere, e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento”.»
Dodici pezzi che rendono il suo nuovo LP un pazzesco “spargimento di cuore” come lei stesso ha indicato per definizione. C’è una traccia tra tutte che sente più vicina?
«Ogni canzone ha un volto, una sua storia. Sicuramente “Folle” è una canzone che non è mai mancata ai concerti. Le ho fatto indossare un abito adatto per poter essere invitata a cena fuori, o per andare a ballare sulla spiaggia mentre una magica luna piena canta una serenata adatta ai folli.»
Lontano da qui il singolo che anticipa l’intero lavoro discografico è una sublime ballata d’amore. Possiamo scavarne anche un contenuto personale?
«Sai ho letto da qualche parte una frase di Jack Nicholson: “So tutto di tre cose: saloni di bellezza, film e rimesse dei treni”. È la vita: tutto si prende e tutto ci lascia addosso. Gli incontri ci cambiano. Alcuni ci lasciano cicatrici sul cuore, altri ci spingono fuori dalla porta di casa, mentre da una finestra si sente l’eco di una vecchia milonga: “Lontana, lontana…tu sei lontana da qui”…»
Ascoltando Cantico di Orfeo ho immaginato i suoni che la compongono , scorrere in un film. Ha mai pensato alla sua musica per accompagnare altresì, pellicole cinematografiche?
«Sono salito a bordo di una diligenza con un’orchestra tascabile, trombe mariachi, fisarmoniche, chitarre elettriche di frontiera, percussioni, batterie, violino, banjo, tamburi saltellanti, timpani, campane, voci liriche… L’orchestra s’è fatta epica, come l’impresa da affrontare. Ho scelto una direzione che somiglia ad una vecchia pellicola invecchiata. Il suono è diventato caldo come il sole a mezzogiorno in pieno deserto. Non escludo la possibilità di curare la colonna sonora di qualche film, sarebbe sicuramente un’esperienza compositiva e conoscitiva molto interessante.»
Ogni suo pezzo rimanda ad un inno alla libertà di cui il viaggio e gli incontri sono colmi. Qual è la sua di idea, di libertà?
«Questa ha più chiavi di lettura. Proverò a partire da “L’affittacamere” di Dostoevskij, che analizza il problema in anticipo sui tempi: “Da’ la libertà all’uomo debole, ed egli si legherà e te la riporterà. Per il cuore debole la libertà non ha senso”. Queste parole evocano qualcosa di orribile. Se la libertà concessa all’uomo debole viene restituita, la prima domanda che dovremmo porci è la seguente: “L’uomo oggi è debole? E, qualora la risposta fosse affermativa, rispetto a cosa? E ancora, se una piccola porzione gli è sufficiente, di contro c’è n’è molta in vendita? Chi sono i compratori?, o per dirla con Dostoevskij, a chi sta per essere restituita? Per essere liberi dobbiamo recuperare prima l’ozium: il tempo per pensare e riflettere. Quello è il primo passo verso la libertà e va accompagnato con la partecipazione alla vita pubblica. Il discorso è più ampio, naturalmente.»
Infine le vorrei chiedere…quando ha capito che il suo viaggio sarebbe dovuto essere quello di “divulgatore di musica”?
«Scrivere è un po’ viaggiare. C’è la strada e una voce che ti parla e ti dice: “Ora tutto quello che mi succede e tutto quello che incontro e ascolto e vedo verrà caricato a bordo di un treno merci”: gli stivali che cadono dal balcone, il taxi che passa col rosso e perde la marmitta in corsa, la pazza della porta accanto, il gatto che pensa di essere un cane e prova ad abbaiare con dubbi risultati. C’è un tempo in cui le cose arrivano e sta a noi raccoglierle, e un tempo in cui farle uscire. Quando scrivi le canzoni arrivano, quando non le chiami, non arrivano.»