Federico Mattioni torna dietro la macchina da presa. Dopo il film “Dalle parti di Astrid”, il giovane regista, si dedica al suo nuovo progetto cinematografico “Tundra”. «Un mockumentary – come lui stesso sostiene – che guarderà da vicino la piaga sociale degli innumerevoli cinema chiusi a Roma».
Dopo la realizzazione del film “Dalle parti di Astrid”, in questo periodo stai lavorando ad un nuovo progetto filmico, ce ne parli?
«Sto girando un secondo film, un folle e curioso mockumentary che tenterà di guardare da vicino la piaga sociale degli innumerevoli cinema chiusi a Roma. Il titolo è “Tundra” ed è un film che omaggerà tante mie passioni, alcune conseguenti ossessioni e diversi generi della storia del cinema dentro l’apparente scorza del documentario di finzione. Siamo all’incirca a metà del percorso di riprese. La pianificazione di questo film è avvenuta in maniera particolare, è nata dai casting di un altro film di produzione più complessa e lunga che ora è relegato nel ricco cassetto di miei progetti e si è sviluppata per gradi. La cosa che mi sta più elettrizzando è la commistione di elementi che caratterizza la storia. Un film che per la prima volta ho cominciato a girare senza aver ancora completato la sceneggiatura, né il cast. Tutt’ora siamo ancora alla ricerca di una ballerina per una delle scene più belle e importanti del film. Alcuni personaggi poi sono nati perché suggeriti dagli stessi attori ai provini. È bello, pur mantenendo pedissequamente il proprio credo, vedere come ogni volta, a seconda della tipologia di film, l’approccio alla materia filmica muti.
Cosa rappresenta per te questo nuovo lavoro?
«Il Cinema per me è vita e “Tundra” voglio che sia anche un modo per esplorare le mie innumerevoli sfaccettature. Qualcuno potrebbe uscirne spaventato, altri potrebbero non vedere l’ora di conoscermi, altri ancora sarebbero pronti a dissuadermi, invano.
“Dalle parti di Astrid” ha segnato il tuo esordio alla cinematografia. Come è nata l’idea del film? Hai prese spunto da una storia vera?
«Le idee nascono il più delle volte dal nulla, da un ricordo, una visione, una suggestione o un bisogno compulsivo di dover creare qualcosa. Quel qualcosa il più delle volte si forma nella tua testa e diviene un pensiero, un pensiero a cui dare una forma narrativa, soltanto dopo scoprirai che quella forma creata ha avuto origine nella tua coscienza e la coscienza è legata al passato, ad alcune esperienze in particolare che ci hanno segnato. Non so se quella di Astrid sia una storia vera, so solo di aver fatto il possibile per farla apparire come veritiera. La semplice idea che qualcuno proveniente da chissà quale realtà alternativa potesse prestarsi per soccorrere una ragazza in crisi mi affascinava troppo».
Come e quando ha deciso di avvicinarti al mondo del cinema?
«È avvenuto tutto un po’ per caso. Inizialmente volevo soltanto scrivere di cinema, poi ho cominciato ad avere idee per delle sceneggiature, dopo che sono rimasto folgorato dalla forza dei film, a partire da pellicole romantiche, horror e noir. Una serie di incroci durante il percorso di studi universitari mi hanno condotto dentro realtà che mi hanno permesso di mettermi in gioco con modalità fra le più disparate, non solo ed esclusivamente come regista. Decisive sono state alcune esperienze d’insegnamento a bambini e adolescenti, e collaborare con alcuni/e ragazzi/e stranieri/e che mi hanno messo a confronto diretto con quella che è la reale suddivisione dei ruoli, senza alcuna urgenza di prevaricazione, puntando dritti alla riuscita del progetto con grande passione e sacrificio, rispettando quella che è la gerarchia del set. Una gerarchia basilare che se rispettata, permette di portare rispetto a tutti nella complessiva unificazione delle risorse. Con il buon senso si può arrivare fino in fondo. Così ho deciso di non staccarmi più da questo mondo».
Quali sono i pro e i contro nel realizzare un film indipendente?
«Anche solo il fatto di averla questa possibilità di realizzare un film grazie all’innovazione del digitale è un piccolo grande miracolo. Significa che il Cinema è l’arte che nel tempo si è più evoluta e continuerà ad evolversi. Un’arte che non cesserà mai di stupirci e per questo la ritengo, tra le forme d’arte, quella più potente (inclusiva/esclusiva). Poi però l’accesso al mezzo implica delle specifiche tecniche che non sono alla portata di tutti e bisogna rimboccarsi le maniche cercando di fare quanta più esperienza possibile per poter apprendere rapidamente. La differenza la fanno la passione, la dedizione allo studio (a partire da casa, su libri e attraverso la visione di film), la caparbietà, e di conseguenza la credibilità. Nel cinema indipendente, logica vuole che ci siano molte meno risorse e quindi un vantaggio può essere che si è costretti a cercare di tirar fuori il meglio possibile da quel poco che hai, stimolando la creatività, mentre alcuni “reparti” si ritrovano a doverne gestire anche altri, rischiando di perdere il controllo. Questo può comportare del nervosismo a lungo andare, ma bisogna partire da un presupposto, ovvero che la suddivisione rigida dei ruoli nel cinema indipendente è quasi un’utopia, ci si arrangia e a volte non si hanno orari. Nel fatto di non avere orari non c’è poi molta differenza col cinema dai grandi budget. Poi c’è indipendente e indipendente, a volte la realtà italiana incasella nell’indipendente anche film che hanno avuto il privilegio di usufruire di fondi pubblici non dichiarati, aggirando gli ostacoli in maniera poco ortodossa. Non vorrei addentrarmi troppo nelle segrete di certi meccanismi che del resto mi sono ancora, in parte, oscuri. Penso però che fare cinema indipendente offra l’opportunità di crescere molto in tempi davvero rapidi perché è proprio quando ti trovi da solo e devi capire attraverso il tuo ingegno e la tua praticità che hai l’opportunità di crescere; nel cinema indipendente puoi inoltre avere l’opportunità di fare quel che desideri venendo impiegati per le cose per le quali siamo più portati, che le grandi produzioni non ci offrirebbero mai. Lo stesso vale per gli attori, che accettano di prender parte a film indipendenti perché offrono loro opportunità vantaggiose dal punto di vista della valorizzazione delle loro capacità, in modo tale da sopperire al motivo economico. Una motivazione non di poco conto, il più delle volte attori di talento vengono relegati a ruoli di comparsa o a particine insulse che finiscono per non rivelare mai le loro capacità. E poi non è detto che non si riesca comunque a farsi notare anche senza i privilegi di chi viene distribuito in diverse copie nelle sale. Purtroppo la pubblicità costa, specie quella in televisione, e il web è diventato il “contentino” degli indipendenti. Spingere col popolo del web può aiutare ma vive della casualità degli incroci con le persone giuste, quelle stesse persone che un tempo potevi ritrovarti sedute accanto allo stesso caffè e che magari ti davano retta, perché meno prese dall’invadenza della nuova tecnologia, fra le principali responsabili delle distrazioni che hanno condotto sempre più lontani gli spettatori dalle sale cinematografiche, quelle stesse sale alle quali ambiscono anche gli indipendenti. Sempre dipendenti da qualcosa siamo, ma perlomeno possiamo seguire la nostra vena artistica con meno imposizioni».
Quali sono i tuoi registi e film di riferimento?
«Una domanda a cui faccio sempre fatica a rispondere. Il cinema è un’arte composita e se la si ama a priori, diventa difficile andare per generi o anche solo per cinematografie di riferimento. Amo tante tipologie di cinema, generi diversi, modi di fare, di pensare il cinema in maniera differente. Il solo fatto che ci sono così tanti registi che pensano e lavorano in maniera diversa è di per sé motivo di curiosità. Diciamo che amo molto coloro che fanno dell’aspetto audiovisivo la loro forza, a tal punto da generare un linguaggio personale, che fanno delle immagini, dei suoni e dei silenzi il loro asse nodale. Come non citare Bresson, Malick e Piavoli, i primi che mi vengono in mente che si associano a questo ordine di idee. Ma accanto a Bresson potrei metterci Cassavates, accanto a Malick Kubrick, accanto a Piavoli Hitchock. Sono praticamente degli opposti, eppure hanno tutti la stessa carica, uguale forza, identica presa. Preferisco non continuare con certi accostamenti, perché potrei lasciarne fuori alcuni e rimanerci male io stesso. Citare dei film diviene, pertanto, ancora più complicato. In questi ultimi anni sono rimasto molto colpito dai film di Steve McQueen, Nicolas Winding Refn, Christopher Nolan e David Michod. Potrei citarne altri. Del cinema classico e/o rivoluzionario del passato potrei fare grandi nomi, ma forse il film che mi ha più di tutti trafitto il cuore, quando scoprii il cinema al primo anno d’università, è stato “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Paradossalmente è tratto però da un’opera teatrale, ma i temi, le interpretazioni, la direzione degli attori e la messa in scena nella sua complessità mi hanno toccato nel profondo. Peccato non essere riuscito a vederlo al Cinema. Recentemente sono andato a Bologna, lo trasmetteva il Lumière proprio quella sera in cui mi trovavo in città ma l’ho saputo soltanto dopo».
Ci sono degli attori in particolare che ti piacerebbe dirigere in futuro?
«Gli attori che amo dirigere sono quelli che d’accordo con il regista scelgono di fare un viaggio, dove s’intravede la meta ma non si distingue bene il percorso, ci si prende per mano e lo si affronta assieme. Stessa cosa che vorrei ritrovare nella troupe di collaboratori. Ciascun pezzetto delle capacità di ciascuno contribuisce alla riuscita del film e quindi anche a quella insita nel sodalizio fra il regista e i suoi attori, in particolar modo con il/la protagonista. Potrei sognare in grande facendo nomi di grossi attori americani ma preferisco di no per ora. C’è un attore molto poco citato, è scozzese, un magnifico attore, si chiama Peter Mullan e vorrei tanto lavorarci un giorno. Mi dà l’idea di uno di quegli attori capaci di spingersi davvero fino in fondo e andare oltre. Poi ci sono alcune attrici straniere emergenti davvero brave ma la lista diverrebbe strabordante. In Italia la scelta è un po’ più ridotta, ma ce ne sono tanti di sconosciuti che sono davvero bravi e in questo senso, tra gli “sconosciuti”, penso di avere il privilegio di poter lavorare con i migliori».