Ha iniziato la sua brillante carriera a teatro l’attore Massimo Dapporto, collaborando al cinema con i grandi registi Marco Risi ed Ettore Scola, in televisione nei panni del Dottor Magri e di Don Marco registra il record degli ascolti Rai. In questo periodo è impegnato in una tournée teatrale al fianco di Tullio Solenghi, nella commedia Quei due (Staircase – Il sottoscala) di Charles Dyer per la regia di Roberto Valerio, in scena dal 7 al 19 marzo al Teatro Quirino di Roma. I protagonisti sono Charlie ed Harry, due barbieri omosessuali degli anni ‘60 che convivono da trent’anni in un sottoscala di Londra, quando l’omosessualità era considerata un reato. Nella prossima stagione teatrale porterà sul palco “Un borghese piccolo piccolo” tratto dal romanzo di Vincenzo Cerami, film del regista Mario Monicelli in cui era protagonista Alberto Sordi.
Parliamo del suo personaggio Charlie in “Quei due” Staircase -Il sottoscala. Un uomo che vive la sua omosessualità con imbarazzo e vergogna. È un ruolo abbastanza complesso, come si è preparato ad interpretarlo?
«Studiando ed imitando atteggiamenti. In ognuno di noi c’è una piccola dose di omosessualità, ossia c’è una parte femminile in ogni uomo ed una parte maschile in ogni donna. Per quanto riguarda l’imitazione, per evitare di fare una caricatura, bisogna capirne sia le qualità che i difetti. Charlie ed Harry vivono insieme da trent’anni, in loro gli spettatori ritrovano le stesse peculiarità di una coppia eterosessuale, si riconoscono, rivedono le difficoltà di tutti i giorni. Charlie è la parte maschile della coppia, un ex eterosessuale, già sposato con una figlia, Tullio Solenghi, Harry, invece, riveste la parte femminile».
La commedia è ambientata nell’Inghilterra degli anni’ 60,quando l’omosessualità era duramente punita dalla legge. Ancora oggi, però, non mancano fenomeni di omofobia. Questa commedia potrebbe far riflettere le nuove generazioni. Cosa ne pensa?
«È un periodo in cui un Inghilterra illuminata praticava ancora la castrazione chimica per l’omosessualità. Sì, Quei due può e deve far riflettere. Il testo teatrale cita anche situazioni scabrose, riportate dai giornali, come il suicidio di un omosessuale. Anche se sia stata scritta nel 1966, risulta molto attuale».
Quanto è stato gratificante a livello artistico mettere in scena “Quei due” ed umanamente cosa le lascerà Charlie?
«La gratificazione è aumentata nel tempo, cercando di scoprire sempre nuove sfaccettature, così nel corso delle repliche sia io che Tullio siamo maturati, a livello interpretativo, diventando sempre più veri e recitando sempre meno. Dal punto di vista umano Charlie mi lascerà la sua sensibilità ed anche il fatto di avermi portato a scavare dentro di me».
Come sta vivendo il rapporto artistico con Tullio Solenghi?
«Benissimo È difficile che un attore parli male di un collega, mi trovo bene con Tullio e lo apprezzo. È un perfezionista ed un serio professionista. Sul palco spesso ci scambiamo consigli, devo dire che siamo legati da una stima reciproca».
Ritornando al passato, in diverse fiction come “Amico mio”, “Un prete tra noi”, “Distretto di Polizia 7” e il film tv “Giovanni Falcone, l’uomo che sfidò Cosa Nostra” ha interpretato uomini giusti e coscienziosi. Forse è questo uno dei segreti del successo di queste serie tv?
«Sì, certo. Ho sempre fatto dei personaggi positivi ed il pubblico li ha apprezzati. Si sente il bisogno di uomini onesti. Pensiamo ad esempio ai politici e al loro potere che li logora. Questi uomini rimangono spesso invischiati in una rete di favoritismi. Dovrebbero, invece, cercare la parte onesta di sé stessi ed utilizzarla a favore della società».
L’abbiamo vista lo scorso anno nella serie Rai “Luisa Spagnoli” in cui era Francesco Buitoni. Quando tornerà in tv?
«Non lo so. Quando guardo la televisione mi rendo conto di quanto siano cambiate le generazioni. A parte Luca Zingaretti protagonista del Commissario Montalbano, bravissimo attore, i nuovi interpreti sembrano degli “omogeneizzati”, non mi trasmettono alcuna emozione, molti improvvisano, sono simili ai protagonisti dei fotoromanzi, senza alcuna esperienza teatrale. Il teatro è la base dell’attore, l’attore nasce su un palcoscenico».
Lei è stato co-protagonista del cortometraggio “L’apparenza” diretto da suo figlio Davide. Sono previste altre collaborazioni?
«No, per adesso. Mio figlio deve fare la sua strada come regista. Anch’io non ho mai lavorato a teatro con mio padre. Mi è capitato una sola volta nel film “La famiglia” di Ettore Scola, allora io lo portai sul set. In quell’occasione l’invecchiamento del mio personaggio, Giulio stava diventando un problema a livello cinematografico, il mio trucco era appesantito, si notava e non risultava credibile, così, volevano sostituirmi con un altro attore che interpretasse Giulio in età matura. Portai mio padre Carlo sul set, dato che, come dicono tutti ci assomigliamo. In quel film io e mio padre ci siamo dati la staffetta».
Cosa le manca di quel periodo insieme a suo padre Carlo?
«Mi manca mio padre, il dialogo con lui. Si perde un genitore quando si incomincia a parlare con lui, quando si hanno punti di vista che collimano, quando speri che incominci a raccontare di sé».
Ha mai pensato di proporre un film per raccontare la vita di Carlo Dapporto?
«Non amo lavorare sui sentimenti personali, lo penso e lo porto dentro di me, come mia madre. Mia sorella Giancarla ha scritto un libro, un’autobiografia molto delicata su mio padre, dal titolo “Massimo, Carlo ed io-Metamorfosi affettive”, che verrà presentata all’Auditorium di Roma nel mese di marzo ed in quell’occasione sarò presente».