Alessandro Benvenuti arriva a Napoli per dare vita a L’Avaro di Molière così come l’ha immaginato il talento elettrico del regista Ugo Chiti. Il palco del Cilea viene inghiottito dalla presenza magnetica di un Arpagone scostumato, intenso, insostenibile, che si fa odiare così tanto da rendere impossibile non amarlo. È sorprendente; Benvenuti è il purosangue da palcoscenico di sempre, con la sua storia di Giancattivo e la sua raffinata vena comica. Il ritmo sincopato delle scene della commedia ricorda che il teatro è un’esperienza profondamente cardiaca. L’Avaro ci fa ridere e arrabbiare, una combinazione complicatissima, per molti inafferrabile. I figli Elisa e Cleante, candidi e complici, si dibattono avvinti dalle frenesie d’amore. La mezzana Frosina, la delicata Mariana, Freccia l’imbroglione, l’onesto e disperato Valerio, Mastro Giacomo il tuttofare; gli attori sono una macchina oliata alla perfezione, senza sbavature. Fanno bene agli occhi.
L’Avaro, peraltro, è il primo classico che l’attore protagonista porta in scena. Alla domanda “Cosa l’ha spinta al teatro?”, Benvenuti risponde : «Intrattenevo i miei compagni delle elementari, durante l’ora della merenda, per fargli salire gli zuccheri. All’intervallo delle dieci raccontavo film che non avevo mai visto». Parla di predisposizione, quando parla del sentimento che lo ha chiamato alle scene; «All’inizio non hai coscienza – dice – obbedisci alla tua natura». La responsabilità dell’arte è un impatto che arriva dopo. Ricorda con affetto il primo amore, Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene, che ha trasformato la sua predisposizione in sfida.
Del resto, è sempre stato sperimentatore di linguaggi, sofisticato ed irriverente; il teatro come sfida e ricerca è il suo elemento. «Per me essere un comico vuol dire dover sorprendere ogni volta lo spettatore e non essere mai figlio del risultato», ha detto. Ed è evidente.
Benvenuti ha ricostruito Molière secondo la sua natura, rompendo gli schemi insieme ad Ugo Chiti, con cui ha un lunghissimo sodalizio umano e teatrale; “Mi ha aiutato molto la scrittura di Ugo. L’approccio è stato, devo dire, quasi rock.”, racconta l’artista. «Ho affrontato il personaggio pensando all’investitore moderno. Mi sono ispirato al Gordon Gekko di Michael Douglas nel film Wall Street, alla ferocia dell’uomo che vede nel danaro la possibilità di un accumulo, un gioco al rischio, una filiazione. Quello che conta, nel giocare in borsa, è la velocità, il ritmo. Ho cercato di portare questo, nell’opera. Comunque seguo il pensiero di Molière, che diceva che l’importante è che lo spettatore si diverta». E ci è riuscito. Ha saputo divertire il pubblico in sala, che ha riso di cuore, incantato dai suoi gesti. È stato capace di dare una cadenza personale ed imprevedibile ad un personaggio ostico e detestabile, che dirige le vicende di scena come un maestro d’orchestra, e si avverte sul palco anche quando non c’è. Le chiare intenzioni hanno avuto un felice esito; come anche vari critici hanno già notato, quello di Chiti e Benvenuti è davvero un Molière più tonico, più feroce, più veloce. Il punto di vista dell’attore incuriosisce al punto da spingere a chiedersi se c’è qualcosa che magari ha amato, di quell’Arpagone con un lingotto d’oro al posto del cuore. «No – afferma l’artista – ho sofferto moltissimo nell’interpretarlo». L’amore fraterno che lo lega a Chiti, come ogni vero amore, è una strada fatta di crescita e conflitti. Sani, certo, ma infuocati. «Ci ho messo venti repliche ad essere soddisfatto della strada che avevo trovato, indirizzato da Ugo. È una cosa misteriosa, la complicità tra chi scrive e chi interpreta. Non la si può decriptare minuto per minuto. Spesso è un’insofferenza che diventa pace quando l’input dello scrittore trova la maturità dell’interprete. Ugo ci dice sempre: ‘adesso che avete capito il personaggio, lavorateci da soli».
Sipario.
L’Avaro di Molière sarà al Teatro Cilea di Napoli dal 9 al 12 febbraio.