Al Teatro Palco delle Valli di Roma è andato in scena lo spettacolo “Io, Dante e Beatrice”, spettacolo omaggio a Dante Alighieri, più surreale e romantico della compagnia Quattr’etresette. In scena gli attori Gianni Alvino (Dante), Stefania Chiara Cavagni (Beatrice) e Federica Battaglia (Beatrice). In “Io Dante e Beatrice”, il surrealismo è spinto al massimo della comprensione emotiva grazie alla scenografia realizzata dallo stesso regista Marco Cecili. Dante è un giovane poeta in cerca di ispirazione, seduto sempre nel solito locale, bevendo sempre il solito bicchiere di vino rosso. Incontra Beatrice, anche lei assidua frequentatrice di quel locale, che aspetta la sua amica Beatrice. I tre sembrano già conoscersi, ma ogni tentativo di far luce sui loro ricordi innesca un meccanismo che li riporta, ogni volta, all’inizio dello spettacolo, al momento in cui si sono visti per l’ennesima prima volta. Vivono questa condizione di dejà vu finché non scoprono di essere rimasti intrappolati in un limbo. Per l’occasione abbiamo intervistato il regista Marco Cecili e l’attore Gianni Alvino.
INTERVISTA AL REGISTA MARCO CECILI
Parlaci di “Io, Dante e Beatrice”.
«Dante, Beatrice e la sua amica Beatrice, rivivono ripetutamente il loro primo incontro. Ogni tentativo di far luce sui loro ricordi innesca un meccanismo che li riporta, ogni volta, all’inizio dello spettacolo, al momento in cui si sono visti per l’ennesima prima volta. Vivono questa condizione di dejà vu finché non scoprono di essere rimasti intrappolati in un limbo. “Io, Dante e Beatrice” è difficile da definire: non è una commedia, né una dramma, tantomeno uno storico…se proprio dovessi definirlo, gli darei l’appellativo di performance teatrale surreale, perché ingloba una prosa teatrale ricercata, quasi shakespeariana, che, mista ad un linguaggio più contemporaneo, si coniuga con una performance fisica ed emotiva molto sperimentale da parte degli interpreti. Il surrealismo è poi dato dal contesto in cui i protagonisti si trovano a vivere la scena: un limbo dantesco realizzato come installazione di arte contemporanea. Lo scopo di questo spettacolo è far conoscere la profondità dell’amore tra Dante e Beatrice, tra un poeta e la sua musa, tra un uomo e una donna qualsiasi, utilizzando un linguaggio accessibile a tutti ma allo stesso tempo bello, ricercato, lasciando allo spettatore un chiaro messaggio sull’amore. In questo contesto si incastra la poesia di Dante Alighieri, in particolare in quei passaggi della Divina Commedia e della Vita Nova in cui l’amore viene espresso in versi».
Oggi la cultura teatrale, come quella in generale sta attraversando un periodo difficile, causa sicuramente una carente educazione allo studio. Come si potrebbe superare questo ostacolo?
«Il teatro sostiene la cultura popolare se tratta temi universali con un linguaggio accessibile, contemporaneo. L’arte teatrale ha sempre avuto questo ruolo in passato: educare le masse, soprattutto quelle con minor livello culturale. Oggi il teatro, considerato spesso un lusso della classe borghese fino a qualche anno fa, sta tornando a parlare al popolo. Se da un lato le semplici, e spesso vuote, commedie all’italiana che il medio teatro italiano oggi propone continuano a ricevere maggior consenso di pubblico, c’è una coscienza sociale in risveglio, un teatro che viene “dalla strada”, da compagnie teatrali, anche amatoriali che, con testi originali e coraggiosi, aggiungono qualcosa al tessuto culturale popolare trattando argomenti che le stesse scuole non approfondiscono come dovrebbero».
Chi è Marco Cecili?
«Un grande amante del teatro: sceneggiatore, attore e regista, oggi Direttore Artistico di una compagnia teatrale amatoriale emergente. Amante inoltre dell’Arte in ogni sua forma ed espressione: scrittore di romanzi e pittore di opere contemporanee. Vivo la vita cercando di cogliere ogni sua sfaccettatura per poterla riproporre in chiave personale attraverso le mie opere».
Hai una compagnia teatrale con la quale hai portato in scena altre opere originali, quali?
«Grazie alla mia compagnia Quattr’etresette, sono riuscito a far conoscere al pubblico diverse mie opere originali: il surrealismo della tragicommedia “La Fabbrica dei Bottoni di Sughero”, le risate amare della commedia “Negozio dell’Altro Mondo” e il divertimento e la riflessione de “La versione Gaia di mia moglie”».
Il tuo sogno più grande?
«Vedere una mia opera in scena al Teatro Argentina di Roma».
C’è una Beatrice nella tua vita?
«Ce ne sono due, come nello spettacolo: mia moglie e mia figlia».
Parlaci della scelta degli attori.
«Attori con spiccato talento drammatico in questo caso. Gianni Alvino è un talento di attore drammatico che farà il suo esordio in compagnia proprio con l’interpretazione di Dante. Stefania Chiara Cavagni, mia moglie, è un’attrice di puro talento: ha interpretato tutte le mie opere teatrali fin’ora andate in scena, ricoprendo i ruoli più disparati, dal comico al drammatico fino al surreale. Federica Battaglia è attrice di grande esperienza e talento: in compagnia da circa 3 anni, completa il miglior cast che potessi avere per questo spettacolo. D’altronde tra registi si sa: la scelta del cast è il 50% della regia e devo ammettere che raramente ho provato tanta soddisfazione nel dirigere questi ragazzi».
Dalla scenografia alla regia, un salto enorme. Come hai affrontato il tutto?
«Con leggerezza e divertimento. Disegnando su un foglio l’idea di installazione che avevo in mente, mentre mia figlia di 8 mesi tentava di rubarmi la matita. Poi ne ho discusso con gli attori e, con l’idea di regia che avevo in mente da mesi, le due cose sono cresciute insieme. La musica inoltre è fonte di ispirazione per me, quando creo uno spettacolo teatrale mi accompagna sempre».
INTERVISTA ALL’ATTORE GIANNI ALVINO
Cosa significa per un giovane attore affrontare la figura di Dante? Hai fatto uno studio particolare?
«Affrontare Dante per un giovane attore significa, a mio avviso, misurarsi con l’immensità artistica e stilistica di un poeta che, anche se temporalmente e idealmente distante dai giorni d’oggi, può trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci. E il fatto che Dante appartenga a un’età dell’arte così distante dalla nostra, che descrive un mondo così lontano da quello che viviamo attualmente, è sicuramente un vantaggio; la descrizione del mondo dantesco, seppur distante per forma e ideologie, da quello che conosciamo, parla a tutti, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Dall’altra parte, e questo per me è l’aspetto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto, la mette al riparo da quelle regole che oggi consideriamo di buon gusto, parlando di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nel retorico o nel kitsch. In altre parole, lo studio di Dante mi ha permesso di immergermi nelle sue idee e nelle sue emozioni, espresse dalla sua immaginazione e dalla sua sensibilità, che sono talmente ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del tempo non era ancora in grado di esprimere. E per cogliere questo aspetto unico e singolare di questo poeta mi è bastato abbandonarmi allo studio e alla lettura delle sue opere, riservando particolare attenzione alla Divina Commedia, e nello specifico, al V Canto dell’Inferno, e l’aspetto più straordinario, a mio parere, è il modo in cui Dante riesce a comprimere all’interno di pochi versi un’infinità di informazioni».
Chi è per Beatrice?
«Questa domanda apre, secondo me, diversi mondi nelle coscienze di ogni rispettivo artista. Per me Beatrice rappresenta l’Amore Puro, quello con la A maiuscola, quello che non ha bisogno di particolari artifici affinché si possa esprimere, quello che rivive e si nutre delle emozioni che sono implicite in uno sguardo, in un ricordo, in una parola e non per forza traducibile in un qualcosa di carnale, di tattile, e questo è a mio parere l’unico amore eterno e immortale, quello che non ha mai la possibilità di spegnersi nel tempo, proprio non essendosi mai consumato. Ed è forse proprio l’impossibilità di poterlo consumare che lo rende eterno e immortale. Facendo un parallelo con i giorni nostri e volendo esemplificare senza mezzi termini questo concetto provo ad azzardare l’idea che Beatrice è metaforicamente tutto cioè che c’era nelle relazioni interpersonali prima dell’avvento della tecnologia, la quale ci ha inglobati in un meccanismo paradossale che ha annullato le distanze geografiche favorendo, inconsapevolmente, le distanze rapportuali tra esseri viventi e con esse l’impossibilità di annullarsi per una donna, essendo potenzialmente raggiungibile, in alternativa, qualsiasi altra donna in qualsiasi momento lo si voglia. Dovremmo, secondo me, per poter comprendere appieno questo concetto, vivere più di emozioni reali e non di quelle virtuali, ma questo ai giorni d’oggi è praticamente impossibile».
Parlaci di questo spettacolo dal punto di vista attoriale.
«Di questo spettacolo me ne sono innamorato sin dalla prima lettura del copione, e da subito mi ha rapito il modo in cui è concepito, un modo surreale e di non facile lettura, ma è forse l’unico modo per rappresentare in questa epoca il concetto di Amore. E’ un testo inedito, un dramma romantico sull’Amore, che si serve della figura magnifica di Dante Alighieri per far arrivare al pubblico dei concetti, che sicuramente conosce, ma che forse non sono mai stati analizzati da parte loro come crediamo siano affrontati in questo testo. Dal punto di vista attoriale rappresenta per me una bella sfida, sia morale e intellettuale che fisica, essendo uno spettacolo quasi interamente interpretato in un certo senso in sospensione, con pochi momenti di contatto con tutto ciò che è terreno e con la quasi totalità dell’opera rappresentata in modo ascensionale e discensionale… in questo spettacolo è un po’ come se tutto ciò che consideriamo terreno serva solo di passaggio verso una dimensione paradisiaca o infernale, e questo è espresso dalla particolarità della scena, che consiste in una vera e propria istallazione artistica, ad opera del regista/autore, praticabile dagli attori».
Se dovessi trovare delle somiglianze con Dante, in cosa ti ritrovi e in cosa non avresti, invece, assolutamente un punto in comune.
«Secondo me è davvero difficile ritrovarsi in una figura come quella di Dante, ma se proprio dovessi trovare un punto in comune credo, senza dubbio, che sia la sensibilità verso i rapporti interpersonali, verso le cose che ci circondano e verso le disgrazie altrui, e mi vedo assolutamente distante da lui per il modo in cui riesce a fare arrivare questa sua sensibilità ai propri lettori nonostante l’uso di un linguaggio non propriamente comune. Dunque se da una parte mi riconosco nella sua sensibilità dall’atra parte non saprei mai come esprimerla a parole, preferendo, in alternativa, dei gesti più materiali».
Credi che in Italia sia possibile svolgere solo il lavoro d’attore?
«Mi risulta sempre difficile parlare di me, sono uno che non ama molto descriversi o farsi conoscere in base a ciò che posso raccontare di me, preferisco invece che ognuno mi viva e mi scopra a modo suo, con i suoi tempi e con le sue modalità. Ecco, posso affermare con certezza che sono un ottimo ascoltatore più che un oratore, e sono una persona che si emoziona molto facilmente, ho una sensibilità molto affinata e amo circondarmi di persone simili a me. Non amo l’egocentrismo e l’ipocrisia, per il resto vado d’accordo con tutti gli altri aspetti di ogni singola personalità, positivi o negativi che siano. Sono un giovane attore che ha fatto e continua a fare tantissima gavetta artistica, sia in Italia che all’estero, al solo scopo di conoscersi meglio e conoscere meglio le sue emozioni per condividerle con gli altri, e questo mi è possibile solo grazie al teatro».
Sogni e progetti futuri?
«Sono sempre più convinto del fatto che è impossibile, per come stanno andando le cose, vivere solo ed esclusivamente di teatro in Italia oggigiorno, e credo che lo sarà ancora per alcuni anni a venire. Bisognerebbe partire secondo me dal rieducare le masse al teatro, e far scattare in loro la fame di fruirlo, dopodiché la declassazione dell’arte andrà via via risalendo di posizioni ed innescherà quei processi automatici che porterà ogni artista a sostentarsi solo con il mestiere che ama. Bisogna che ci venga dato più spazio, per avere più spazio serve più pubblico, il quale si traduce in più richiesta…e solo a quel punto gli attori non staranno più parcheggiati a casa per lunghi periodi. Ma il discorso è ovviamente molto più complicato».