Paradise di Andrei Konchalovsky arriva in concorso alla 73. Mostra del Cinema di Venezia, colpendo al cuore una questione a lungo dibattuta tra gli esseri umani: il senso.
Ci fu un tempo in cui la Germania cercava la propria identità, riponendo la sua fede in un dittatore spietato e irragionevole che però le offriva lo spettro fumoso di una grandezza da riconquistare, non importavano i mezzi con cui si sarebbe raggiunto lo scopo; Paradise tenta la ricerca del senso all’interno di una realtà così sconsiderata, vuole la chiave per scoprire l’umanità dentro i mostri.
La pellicola si avvolge intorno alla storia surreale di un francese, un soldato tedesco, una prigioniera ebrea-russa intervistati dall’aldilà; lì, i personaggi riflettono, ripercorrendo gli eventi delle loro vite, e provano un impossibile bilancio. Konchalovsky non cerca le ragioni del male, ma presuppone che ne abbia; in un morbido bianco e nero, intreccia una storia che ha spazio perfino per un’incredibile liaison postuma tra il soldato tedesco e la donna ebrea.
Paradise si misura con un avversario non facile, l’Olocausto, su cui è già stato scritto, detto e girato di tutto, ma si avvicina con circospezione ed una certa eleganza evocativa all’argomento; al Lido, tuttavia, colpisce a metà proprio per qualche carenza di troppo nello spettro emotivo, sempre importantissimo in racconti di questo genere. Nonostante i molti spunti di riflessione offerti dal film, non basta suggerire l’amore come arma determinante nell’eterna lotta tra il bene e il male, né guardare sconfortati a questo secolo di illusioni, innocue come il Cinema o tossiche come il Nazismo; Konchalovsky e la sua cifra stilistica questa volta non convincono del tutto.
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