Gheri è abituato a sentir cantare le sue canzoni dai più grandi artisti italiani. “Non sono mai stato autore – ci dice presentando il suo nuovo disco Generazione 0 – ma sono stati gli altri a chiedermi dei pezzi che avevo scritto per me”. E questa attitudine di soddisfazione personale l’ha conservata per il bel disco rock di inediti che è uscito da poco Generazione Zero. Lo abbiamo incontrato per capire cosa c’è dietro un trentenne che oggi fa musica in Italia con un grande produttore come Luciano Luisi, già a lavoro con Ligabue.
Come è nato Generazione 0 e come l’hai scritto?
«Con Luisi ho rapporto splendido, è diventato amico, durante il lavoro siamo davvero diventati vicini. Lui è stato il primo a crederci, quando gli ho portato il mio provino e c’è un rapporto straordinario di empatia. È una persona molto libera artisticamente, ti lascia molto fare e per me è come un fratello maggiore. Molti possono pensare che avendo lavorato con Ligabue sia una persona ingombrante ma non è così. Il nostro è un binomio molto equilibrato e propositivo. Gheri non è una band, sono io perché scrivo testo e musica e gli arrangiamenti sono tutti curati da me. Ho bisogno di una band per capire se quello che scrivo funziona per il live».
Il brano Chi Siamo Diventati è uno dei simboli del disco, di che parla?
«Ho messo in campo una riflessione che mi sono sempre posto, che è quel momento della vita in cui cambi e la vita stessa ti chiede delle assunzioni di responsabilità. Si cambia, non si è più quelli di ieri e la spensieratezza dell’adolescenza è lontana. La strofa dice: bruciavamo i ponti su cui correvamo solo perché volevamo vivere convinti che nessuno sarebbe morto. C’è un periodo in cui sei libero e la vita ti impone un cambiamento. Forse per alcune cose però quello che eravamo ieri era meglio. È impossibile ritornare a essere quelli di ieri ma è bene ricordarselo. Come quando amavi la prima volta, in Cuori Randagi per esempio parlo dell’amore della prima volta che poi è condizionato dai filtri, dalle cicatrici che arrivano dopo e non ti permettono di avere lo stesso coraggio».
I tuoi riferimenti sono molto rock. Hai sempre seguito questo filone?
«Bruce Springsteen mi ha sempre influenzato, nella sua matrice ho trovato sempre affinità, al di là delle sue stagioni, con o senza E- Street Band. Lui ha avuto sempre un linguaggio visivo, cantautorale e percettivo. È quello che mi attira, parla di cose che vibrano intorno, non ha tematiche o stereotipi, ha un linguaggio che mi ha aiutato molto perché scrive per immagini, è cinematico. Ha una verità e profondità che mi richiama, con fatica ovviamente».
Hai lavorato con i grandi protagonisti della musica italiana, che ricordi hai?
«Quando eravamo in tour con Zucchero, per l’album Fly nel 2006, quando avevo scritto un pezzo che si chiama Quanti Anni Ho, ho avuto l’onore di conoscere l’hammondista David Sancious che è il primo hammondista di Bruce che è un pezzo di storia del rock e mi ha chiamato nel backstage. Mi voleva dire che il brano che avevo scritto in cui fa un assolo era il brano più bello dell’album. È stato bellissimo, non lo dimenticherò mai».
Quando non lavori cosa fai?
«A me piace leggere e divorare film, sono un salutista anche se la birra la bevo. E mi piace molto la montagna, le Alpi Apuane, gli amici più stretti sono lì e sono la mia via di fuga. Montagne aspre senza turismo di massa, cammino molto, non amo il mare. È una terra che ispira emozioni e rapporti molto veri, non ho un approccio escursionistico alla montagna, passo le giornate nei rifugi con degli amici e la mia chitarra. La montagna e gli amici sono i miei cardini. Don’t Die Before Your Time è il tatuaggio che ho in petto ed è per un mio amico fraterno che non c’è più».