Il JET SET è la band che sostiene Rocco Traisci per una serie di live (il primo questa sera al Pompeilab di Pompei) e un disco di canzoni d’amore; musicisti campani che, come una sorta di jam session vesuviana hanno concepito un album dal titolo molto accattivante “L’amore ai tempi della collera”. Abbiamo incontrato Rocco Traisci ed abbiamo fatto quattro chiacchiere su di lui, sul gruppo e sulla musica in genere.
In attesa del vostro album siete impegnati in una serie di serate live, come le avete strutturate?
Struttura agile. Dieci pezzi secchi, un paio di cover. Il piano d’attacco è appena partito e il disco sarà pronto solo tra un paio di mesi, così anche tutta l’organizzazione promozionale.
Mi piace molto il titolo “L’amore ai tempi della collera” che ricorda Marquez ma che racconta il nostro quotidiano, ci parli di questa scelta?
Il riferimento a Marquez è letterario, certo. Ma nel titolo si allude alla precarietà dei sentimenti e delle relazioni. La rabbia della precarietà nella vita lavorativa e quindi il disagio perentorio della vita tout court ha fatto più danni che Facebook. Perchè quando sei debole tutto appare debole. Quarant’anni fa, diciamo al tempo dei nostri genitori, la famiglia era un simulacro inoppugnabile, dentro cui si consumavano anche esperienze terribili, ma ci si chiudeva nella sfera privata per difendersi dalle invasioni barbariche. Quarant’anni fa non c’erano problemi di occupazione, c’era il benessere. Oggi siamo più liberi ma decisamente anaffettivi e molto più egoisti e squattrinati. La colpa non è di nessuno.
Che tipo di musica fate?
La band si chiama Jet Set perché nel giro di pochi secondo riesce a cambiare location musicale come se niente fosse, come facevano appunto quelli del jet set che in una notte giravano Montreux, Campione d’Italia e Capodistria con l’aereo privato andando a puntare soldi nei casinò. Anche noi siamo azzardosi: con Giovanni Vicinanza, producer dell’album e autore delle musiche, ci piace mischiare blues e psichedelia, indie rock e cantautorato spinto. Un mio amico ci ha definiti una band “punk romantica”. Ma suoniamo bene.
Tu sei un giornalista che proviene dalla nera, quanto il lavoro influenza la tua musica?
Poco o nulla. Sono due dimensioni completamente differenti. La “nera” mi ha aiutato ad osservare con cura dei dettagli le cose che avvengono. E questo metodo sicuramente ha influenzato anche il modo di scrivere le canzoni. Nei miei brani c’è sangue vivo non c’è splatter.
Cosa pensi dei talent show?
Se escono voci interessanti ben vengano. In quindici anni gli unici due artisti usciti da un talent che mi piacciono sono donne, Noemi e Malika Ayane.
Quali sono i tuoi modelli artistici?
Beh, Enzo Jannacci. Per me il più grande cantautore italiano. Matto da legare, commovente, finissimo musicista, grande interprete. Le sue canzoni mi hanno segnato.
Quanto è difficile fare il musicista a Napoli?
Non è difficile fare musica a Napoli, o almeno non è più difficile che in altri posti. Si organizzano dei brani, si suonano e si tenta di portarli in giro. Se l’operazione è valida c’è sempre spazio per la buona musica, altrimenti…
Cosa farai da grande?
Il pittore. O il babbo. Ho una figlia di 11 anni che mi segue e mi consiglia ed è stata abituata in casa ad ascoltare testi difficili, non adatti sicuramente a una ragazzina. Ma ormai conosce De Andrè, Dalla e i Sex Pistols. Devo fare attenzione a non perderla di vista, si avvicina la fase critica e vorrei esserci.