Dal 26 maggio al cinema, Julieta, il nuovo film del regista spagnolo Pedro Almodòvar. “Quando cominci a scrivere non sai mai dove vai, scopri piano piano, cosa racconterai.” Almodòvar introduce Julieta, in concorso al Festival di Cannes. Un contenuto cinematografico molto coraggioso, dove incontriamo tutta l’esperienza e la maturità del regista, ma anche una sfida. Un film che presenta la ciclicità della donna, protagonista onnipresente delle sue pellicole. Julieta mette insieme gusto ed estetica, pur non trattandosi di un film melodrammatico, bensì drammatico, che ce ne rivela la scelta sorprendente. “Io non sono sicuro di non scontentare il pubblico che mi segue, perché nel momento in cui scrivo, gli spettatori non esistono” così Almodòvar, ci racconta come è nato Julieta. La storia di una donna, una madre che da dodici anni non vede più la figlia, Hantìa, un abbandono improvviso, impossibile da accettare. Da qui l’incontro casuale di Julieta con Beatrìz, l’amica d’infanzia della figlia, che la riporterà di fronte alla realtà, dinanzi all’esistenza di Hantìa. Una proiezione che imprime il senso della misura, che ci racconta l’assenza. Almodòvar difatti, ha volutamente scelto di togliere le lacrime, i colori dalle stanze; Un film in cui si percepisce la nudità delle cose che rimane dopo l’abbandono. Un elemento quest’ultimo, che si intreccia al senso di colpa. I due fili conduttori dell’intero lungometraggio. “Nel momento in cui ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, non mi rendevo conto fino a che punto questo senso di colpa potesse essere importante, anche perché il senso di colpa a me non piace, lo associo all’educazione cattolica che stona con il mio orientamento laico”. Il regista imprime incisione ad un collante ricorrente, che diventa una sorta di malattia morale che tratteggia la sostanza tematica di Julieta.
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