Claudio Santamaria porta in scena il suo Gospodin al teatro Bellini di Napoli. L’attore e doppiatore – che dal 25 febbraio vedremo sul grande schermo protagonista di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, film che segna l’esordio alla regia di Gabriee Mainetti – è impegnato in un tour teatrale con lo spettacolo “Gospodin”, bizzarro personaggio nato dalla penna del giovane e pluripremiato drammaturgo tedesco Philipp Löhle. La messa in scena, diretta da Giorgio Barberio Corsetti, con Claudio Santamaria, Federica Santoro e Marcello Prayer, sarà al Teatro Bellini di Napoli dal 20 al 24 gennaio. Abbiamo incontrato Claudio Santamaria ed ecco cosa ci ha raccontato.
Parliamo di questo stravagante e singolare personaggio che interpreti a teatro e che porti in scena per il secondo anno…
«È un personaggio bizzarro, paradossale, estremo, che cerca la sua libertà personale e sente che ciò che lo rende schiavo, fondamentalmente, è il capitalismo, il dover sottostare a delle regole. È un anti-eroe che persegue testardamente un intento eroico: vivere rifiutando il concetto di denaro. Inizia un percorso, per caso o perché lo vuole lui, in cui abbandona un po’ tutto. Gospodin ha tanti amici, ma tutti gli portano via qualcosa: la sua donna lo abbandona portando via mobili e letto, il suo amico artista gli porta via la tv per fare una videoinstallazione che si chiama “tempus fuckit”. Lui inizialmente soffre un po’, ma poi capisce che è un bene separarsi da quegli oggetti, da quelle cose materiali. È un personaggio piuttosto bizzarro. A d esempio: è molto arrabbiato con Greenpeace poiché si è portato via il suo lama, animale con cui passeggiando otteneva mance. Per lui questo animale era qualcosa di più, era una manifestazione contro la città industriale, era una dimostrazione del fatto che l’uomo può vivere anche solo con un animale, senza tutto ciò che il sistema impone. Gospodin vive in un luogo dove non c’è liberta, perché trova delle regole, trova dei confini a questo mondo folle in cui non ci sono limiti, dove apparentemente si può fare tutto ciò che si vuole, ma non è consigliabile, dove questa apparente libertà, per lui non è assolutamente libertà.»
Solitamente ogni personaggio che si interpreta lascia sempre qualcosa in un attore. Cosa ti ha lasciato Gospodin?
«Ogni sera in scena è una lotta perché questo personaggio ricerca la sua libertà personale. Facciamo mille compromessi, siamo costretti a mediare, a fare i conti con mille costrizioni sociali, quindi in scena ogni sera è davvero uno scoprire qualcosa in più di se stessi, di ciò che mi ostacola. È un testo che mi mette molto alla prova, pur essendo comunque un copione che ha dei lati grotteschi, comici, leggeri. Gospodin è un personaggio che mi fa riflettere molto.»
C’è una scena che ti prende particolarmente?
«Ogni sera c’è una scena che in qualche modo mi coinvolge più delle altre. Dipende dalla serata, dal momento. Amo quando ci sono delle narrazioni in cui l’attore compie delle azioni fisiche, ma non c’è dialogo. Ad esempio c’è una scena in cui al mio fianco sul palcoscenico ci sono gli attori Federica Santoro e Marcello Prayer, che raccontano delle cose che fa Gospodin, mentre io mi relaziono alla scenografia e ai video animati che scorrono dietro. Gospodin va a fare la spesa al supermercato e all’improvviso si sente come un borghesuccio e inizia a prendere di tutto, salse, katchup, maionese, tutto quello che vede, pesce congelato, salviette per trucco, di tutto. Questa è una scena che non ha dialogo ma che ha molto a che fare con la libertà del personaggio. Noi l’abbiamo creata in un modo che non era scritta, in cui ci sono questi prodotti che volano da una parte all’altra dello schermo – melanzane, peperoni, scatole colorate – una danza del consumismo che Gospodin balla. Attraverso questa danza il protagonista rompe gli schemi. Po, quando arriva il momento di pagare alla cassa, dice di non avere il portamonete. In questa scena si avverte l’essenza di questo personaggio nelle sue piccole rivoluzioni contro la società. La gente lo prende per pazzo, ma questo è il suo modo di essere, di cercare se stesso, la sua libertà. È questa è per me una scena molto indicativa, come del resto ce ne sono altre nella narrazione, che mi prendono particolarmente.»
Come è avvenuto l’incontro con il regista? Cosa ti ha spinto ad accettare la parte?
«Quando Giorgio Barberio Corsetti mi ha proposto lo spettacolo, un regista che stimo da molti anni, gli ho risposto subito sì, senza aver letto il testo. Ho detto sì a lui, poi, dopo aver letto la sceneggiatura ho capito di aver fatto la scelta giusta.»