Con la vittoria del canadese Drouin nel salto in alto (2,36 m), del kenyano Kiprop nei 1500, delle etiopi Ayana e Dibaba rispettivamente nella 5000 metri e nella maratona femminile, degli USA nella staffetta 4×400 maschile e della Giamaica in quella femminile, terminano più o meno secondo i pronostici questi bei Mondiali di Atletica di Pechino. Alla fine il medagliere decreta soprattutto una bella vittoria del continente africano, e cioè: primo posto al Kenya (7 ori con 16 podi totali), secondo alla Giamaica (7 ori, 12 podi), terzo agli USA (6 ori, ma 18 podi), quarto alla Gran Bretagna (4 ori, 7 podi), quinto all’Etiopia (3 ori, ma 8 podi), ecc.ecc. Per trovare l’Italia bisogna invece scorrere tutta la lunga classifica, e neanche la si rinviene, poiché noi stavolta torniamo a casa con uno bello zero spaccato, cioè ultimi dietro tutti: mai così male, nella storia dell’atletica, la nostra nazione, che pure ha sempre espresso qualcosa in questo nobile sport. Ora tutti gli operatori del settore piangono e qualcuno comincia a fare mea culpa: le Olimpiadi di Rio sono a meno di un anno ed il tempo per un’inversione di rotta è effettivamente poco. Ma se io fossi ai vertici della FIDAL, la nostra federazione nazionale che in questo momento è giustamente nell’occhio del ciclone, più che piangere mi rimboccherei le maniche e, se è vero che nella nostra atletica mancano in questo momento dei talenti paragonabili, ad esempio, a quelli del nuoto, ripartirei dalle basi, per sperare di ottenere risultati tra qualche lustro. Il punto specifico è che da noi, a dispetto dei validissimi coach e manager nostrani (quotati anche all’estero), dei centri sportivi di eccellenza (Formia, Gemona), dei tantissimi praticanti nella podistica e nella maratona, e persino dell’essere il “paese del sole” dove, quindi, si può far sport all’aperto quasi tutto l’anno, non esiste, o non esiste più, una vera ‘cultura’ dell’atletica e in più permangono problemi strutturali. In primis, al sud soprattutto ma un po’ dovunque, le piste, indispensabili per una pratica corretta e performante e per creare agonisti di alto livello, sono ancora poche, malandate, periferiche e comunque gravate dalla difficile coabitazione con gli stadi di calcio (un’altra anomalia tutta italiana, ancor più se si pensi che l’Italia è tra i leader mondiali nella produzione e messa in opera di piste sportive). Poi c’è la questione dell’avviamento a tale sport nelle scuole, che è quasi inesistente, anche qui per problemi soprattutto strutturali, ma direi anche per la forma mentis dei docenti di scienze motorie. Per quanto poi riguarda l’interesse mediatico – salvando la benemerita RaiSport – esso si accende solo quando in pista c’è Bolt con i suoi ‘numeri’ (ma qui si dimentica che dietro il formidabile sprinter c’è un’intera nazione, la Giamaica, che da tempo si è consacrata all’atletica). Last but not least, c’è la questione-vivaio, lì dove operano tante società sportive che, evidentemente, o si interessano egoisticamente solo degli aspetti venali, o comunque non sanno gestire fino in fondo i loro giovani. A quest’ultimo elemento peraltro si intreccia la vessata questione della presunta inferiorità fisico-genetica dei bianchi e della controversa equazione “campione di atletica=nero di pelle”. Se questo fosse vero – ma non lo è, almeno non in senso assoluto – perché allora non rimediare come fanno le altre nazioni europee, cioè naturalizzando molti più africani con talento sportivo, magari attingendo – e qui lo dico davvero senza cinismo – all’inesauribile vivaio dei migranti che continuamente si affacciano sulle nostre coste? Chissà quanti potenziali campioni si nascondono tra quei poveri giovani, e quante vite potrebbero salvarsi e addirittura avere una svolta gloriosa, sotto l’egida del nostro tricolore.