Sarà un caso, ma nello stesso anno delle grandi rentrée di David Bowie e Depeche Mode è arrivato anche il secondo album degli Hurts, il duo elettronico di Manchester.
Esplosi nel 2010 con la celebre “BetterThan Love”, gli Hurts si sono imposti come degni prosecutori del filone pop sofisticato dei due artisti prima menzionati, che hanno fatto la storia del rock inglese.
Li abbiamo incontrati in occasione del loro passaggio italiano (sold out gremitissimo a Milano) in attesa di un tour più corposo. A rispondere sono all’unisono entrambi, Theo Hutchcraft(cantante) e Adam Anderson (tastierista)
Il disco Exile sembra essere più virato al rock. Decisione cosciente?
«Abbiamo sempre saputo di avere una vena rock anche se a volte componiamo partendo da un piano o melodie che ci vengono in mente. Questa volta però abbiamo deciso di mettere assieme molte più influenze che nel nostro debutto, ci siamo presi la libertà di allargare il nostro suono. E crediamo che sia venuto fuori un disco molto vario e molto suonato.»
Non vi viene voglia magari di ridimensionare le canzoni, renderle più semplici?
«Non è detto che non lo si possa fare in futuro abbiamo pensato di incidere solo con piano e voce, sarà sicuramente uno dei prossimi obiettivi.»
Cosa dite del pezzo che fa parlare molti dei vostri fans, The Road?
«Ci abbiamo messo un po’ di influenze dubstep perché pensavamo ci stessero bene. Abbiamo approcciato con lo stesso metodo anche Sandman che è più black.»
È un primo passo verso la conquista dell’America?
«Siamo molto soddisfatti di come siamo accolti in Europa e ci va bene così. Crediamo che l’unico posto dove ci considerano ancora una band giovane è la Francia, nel resto del continente tutti ci conoscono già bene. Ovviamente puntiamo all’America ma per essere presenti davvero lì devi ritagliarti molto tempo da dedicare a un solo paese. E noi da quando siamo partiti abbiamo dovuto fare molte tappe ovunque e ritornare a suonare in posti che ci richiamavano.»
Poi vi siete fermati per fare questo nuovo disco. Com’è nato?
«Il nome Exile non è un mistero, è un po’ la descrizione di come ci siamo sentiti noi quando ci è arrivato il successo. Le hall piene ma le camere d’albergo vuote con la nostra solitudine, i viaggi interminabili. Crediamo che a volte il lato oscuro della vita valga la pena di essere raccontato. Non c’è solamente il bello.»
Perché i vostri fans sono così attaccati a questa vostra visione dark?
«Perché forse c’è molto di più che la risata facile. Il mistero, il nero a volte è più interessante, gli ascoltatori vogliono qualche riflessione più profonda.»
In “Help” c’è Elton John al piano. Com’è andata?
«È venuto a trovarci in studio e abbiamo registrato 20 minuti di musica in una session di svariate ore. È questo il bello di incontrare artisti leggendari come lui. Ci si scambia opinioni e aneddoti, lui racconta tutto in maniera travolgente e noi non riuscivamo a contenere la nostra curiosità.»
Credete di far parte di una scena o volete essere unici?
«L’unica cosa che volevamo fare, fin da quando abbiamo iniziato, era osare. A ripensarci, il modo in cui abbiamo realizzato e presentato il primo disco era in forte contrasto con la musica che andava per la maggiore in quel periodo. Ma l’abbiamo fatto con intraprendenza, siamo stati coraggiosi. Sono queste le cose che ci fanno crescere. E per questo ammiriamo artisti contemporanei come Lana Del Rey. Lei fa tutto da sola senza farsi influenzare e quando la senti e la vedi pensi che nessuno ha il suo stesso stile.»