Uno degli ultimi esemplari di razza in via d’estinzione, il grande drammaturgo Enzo Moscato è un meraviglioso affresco di costume e di storia, con le sue escursioni nella cultura popolare attraverso stilemi di una raffinatezza estenuata, con scritti demistificati con lucida e divertita autocritica, e scritti sfrondati da tratti illusori in cui emerge la rabbia esistenziale di una cultura napoletana testimone di mille soprusi sociali.
Moscato è un ricercatore, uno studioso, tra poco esce l’audiolibro, Carnaccia, Avan-scrittura per 7 numeri e 21 vocali e consonanti (Edizioni D’If) scritto su Antonin Artaud. Ha scritto due libri dedicati alle Quattro Giornate di Napoli, di cui uno resterà un libro e l’altro diventerà uno spettacolo teatrale. Da qualche mese è uscito il suo disco, Toledo Suite, con il quale tornerà a ottobre, dopo vent’anni, al Piccolo Teatro di Milano, inaugurandone la stagione teatrale, dove fece all’epoca lo spettacolo di Embargos, un altro disco uscito nel ’93.
Nell’adolescenza lei ha vissuto tra due mondi, diversi, opposti, tra due culture contraddittorie, quella di strada, i primi anni sui Quartieri Spagnoli, e quella dei libri, infatti, è laureato, ha insegnato, come ha miscelato questi due mondi?
«Non saprei, ognuno ha un proprio destino e, la vita dovrebbe servire, man mano che invecchi, illuminare certe ragioni di fondo, che la tua vita è andata così e, non in un altro modo. Sono nato in una famiglia numerosa, ho abitato sui quartieri spagnoli fino a tredici anni, poi mio padre ci ha “deportato” dai quartieri a Fuorigrotta, all’epoca era un quartiere moderno. Mi sono bastati quegli anni, per avere l’imprinting della vita dei vicoli, ciò che rimane in un individuo sono degli eventi, delle lingue che apprende, in quel breve lasso di tempo, che è la tua primissima infanzia, massimo fino a sei anni, poi c’è l’età di latenza, tutto viene rimosso, cancellato e, rielaborato in un certo modo. Quindi, trasferitomi a Fuorigrotta, non potendo più scendere e stare per strada, giocoforza la mia vita è stata all’insegna della scuola e, l’incontro importantissimo e determinante con i libri, perché venendo da una vita di vicoli, parlando una lingua che non era l’italiano, ma il napoletano, ho capito che c’era altro, aldilà di questo orizzonte mio personale, e quindi, è cominciato tutto il cursus studiorum, ginnasio, liceo, università, i primi anni d’insegnamento di storia e filosofia, però m’interessava molto la scrittura, la lettura, sono sempre stato un accanito lettore, il libro mi ha salvato, se si può dire così, invece, di restare chiuso nel mio ambito napoletano, anche se, intorno ai trent’anni, ho fatto questo viaggio all’indietro, a rivedere, a rileggere, tutta la mia prima cultura napoletana, dialettale, in tutta la letteratura napoletana, nel frattempo avevo appreso l’italiano e le altre lingue, e, quindi con un occhio acculturato ho rivisitato queste mie radici, come se fossi destinato ad essere un po’ il portavoce di questo universo linguistico, espressivo, ma soprattutto umano, antropologico, storico, che non c’è più.»
Nei suoi scritti c’è molto della tradizione culturale napoletana dal punto di vista antropologico, per recuperare questo materiale utile al suo teatro, è andato anche nelle campagne, nei paesini, per raccogliere informazioni?
«No, assolutamente, vedo anche con un po’ di ironia, questo lavoro che fanno certe persone, che si recano in giro con i magnetofoni, i registratori, con i taccuini. Io non ho avuto bisogno di questo, perché stava tutto in testa a me, avendolo vissuto, ho dovuto solo studiarlo, ho fatto un percorso di studi umanistici, ho lavorato qualche anno sulla linguistica, sulla semiologia, anche sulla teoria della letteratura, non solo la filosofia, quindi, avevo gli strumenti culturali per leggere su ciò che mi era capitato. Sono sempre stato una persona attenta, fin da principio, a ciò che mi circondava, con un occhio estraneo, non sono il ricercatore che da New York va a Ponticelli, sono un napoletano atipico. Ho scelto Napoli come mio luogo di vita, avrei potuto benissimo andare all’estero, ma è una città molto stimolante per lo sguardo che gli puoi dare, sicuramente un luogo del mondo straordinariamente interessante, anche rispetto alla storia. Sono uno straniero in patria, ci sono queste combinazioni strane in me, c’è il ventre, la testa, lo studioso, il ragazzo del vicolo, sono anche un rilettore della tradizione canora napoletana, ho fatto dei dischi, non sono un cantante, sono un ricercatore, a me piace dire così, uno dice, ma sei drammaturgo, sei attore, sono, soprattutto, un ricercatore e, poi forse ci sono anche altri elementi, c’è questo desiderio di giocare con le cose, di restare, in fondo, sempre un po’ bambini, stupiti rispetto a quanto vedi, che, secondo me, dovrebbe essere la condizione principale dell’attore.»
Questo aggancio col teatro quando e come è avvenuto? Come ha iniziato?
«Forse l’avevo avuto sempre in me, nella mia famiglia, come in gran parte delle famiglie napoletane, è molto sentito il gioco della rappresentazione, dell’autorappresentarsi, nel mio caso, invece, fu quando dei miei amici che lavoravano in teatro a Roma, leggendo dei miei scritti, mi dissero, perché non li reciti? Sono così belli, c’è tanto di napoletano dentro, poi, avevo alle spalle una grande tradizione teatrale napoletana, Eduardo, Scarpetta, Viviani. È cominciata questa avventura, nei primi tempi, con un po’ di diffidenza, perché insegnavo, ricercavo all’Università, poi vinsi nell’85 il premio Riccione/Ater per il Teatro, e fu la mia consacrazione nazionale, formai una compagnia, e, alla fine il teatro mi rapì completamente, abbandonato anche l’insegnamento definitivamente nell’88.»
Quanto della sua follia artistica mette nei suoi scritti? Qual è il comune denominatore che mette di sé?
«Tutto nasce da noi e, dagli altri, c’è molto di me, ma uno scrittore, il primo strumento che dovrebbe usare è la trasfigurazione, passare dall’Io al Noi. Madame Bovary, c’est moi diceva Flaubert, nella trasfigurazione tutto quello che ho scritto, rappresentato, si rivolge agli altri e sono anche gli altri. Il teatro è un atto soggettivo, individualistico, è tanto più grande, più utile, tanto più convincente, quanto in questo tuo atto c’è tutti gli altri, che si rispecchiano ciascuno a modo proprio, ad esempio, Compleanno è un esercizio mio, ma dove si riconoscono tutti.»
Qual è il punto di partenza quando scrive una storia, un testo, quale primo territorio individua?
«È un processo automatico, io sono l’esecutore di un altro che è in me, il grande poeta Rimbaud, lo diceva già, Io è un altro, l’artista, in realtà, è dominato da un altro, con la A maiuscola, è un inconscio che può essere dio, la fortuna, in qualche modo, è un processo automatico, perché soggettivamente percepisco un culto, una parola, l’inizio di una storia, che poi tutto si svolge automaticamente, e come se la mia mano, venisse guidata da un altro, e, questa è la vocazione, nessuno si deve illudere, che lui è l’esecutore assoluto, il padrone assoluto di ciò che mette in moto, chi dice questo è un fesso, perché noi, non sappiamo quali sono le vere radici dell’ispirazione. Certamente, c’è bisogno di molto studio, non basta avere del talento, o sentire dentro di sé una spinta a creare, ci vuole anche che si leghi a uno studio, il capire tu chi sei, da dove vieni, perché stai dicendo quelle cose e non altre, adesso, una delle cose a cui assistiamo, che è disperante, vedere tutti questi giovani che si mettono a scrivere, a copiare l’uno dall’altro, ma senza studio, senza approfondimento.»
Infatti, nei suoi scritti si nota un determinato studio, anche quando combina insieme svariati idiomi…
«Tuttavia sono consapevole di non sapere niente, più vai avanti e più ti rendi conto di come sei una mosca, un insetto. Negli anni ho sentito dire tante cose di me, sei questo, sei quello, ma io me lo faccio scivolare addosso, nel senso che, pensi che, sia sempre ben poco quello che riusciamo a fare.»
Sulla scena come per i costumi lei usa oggetti simboli, come, ad esempio, in Compleanno gli orologi che mette nella cintura, segno della caducità del tempo, quanto valore dà a questi messaggi simbolo?
«Per mia fortuna, c’è una grande collaborazione anche con delle singole individualità creative, sono servito da grandi collaboratori, fior di artisti, musicisti, scenografi, costumisti, però la scena per me, innanzitutto, è la parola, dopo la parola viene la voce, dopo la voce viene il corpo, la prima scena è quella, ecco perché vedi una scena estremamente povera di arredi, di orpelli. Credo che la prima scenografia siamo noi. La prima scenografia è una parola che scrivi, una parola che dici, il corpo con cui la muovi, il lavoro dell’attore è, oltretutto, un danzare con le parole. Il teatro è tutto, è danza, è linguaggio. Vedo tanti spettacoli che costano molto, per l’impianto scenografico, per le luci, per i costumi, però, sostanzialmente, dentro c’è il vuoto, perché non c’è la pelle, la parola, il pensiero del teatro.
Ti accorgi subito se c’è un pensiero, siccome, il teatro è prima di tutto un pensiero, un concetto che fai rispetto al mondo, che tu lo faccia su una pietra o in un grande salone, non togli e non metti. Ho fatto spettacoli anche al San Carlo, ma per me non c’è differenza, da una piccola sala, anzi, forse mi toglie qualche cosa il San Carlo, perché c’è un gioco di mondanità, estranee all’essenza del teatro, che è sostanzialmente incontrare l’altro.»
E la musica come viene scelta, quali affinità debbono avere con la storia?
«Io ho una certa musica dentro di me, la gran parte delle musiche le scelgo io, non obbedendo a uno stile, a una purezza di colonna sonora, ad esempio, in Compleanno c’è di tutto, la Rettore, Susan Vega, Gipsy King, io sono una creatura barocca, (tutti i napoletani sono barocchi, la cultura principe di Napoli, intendo non solo Napoli città, ma Napoli come posizione geografica), essendo una cultura barocca, deve fare uso di tutto, naturalmente il tutto deve essere giocato con molto gusto, ecco perché io non ho paura di mettere un brano kitsch, vicino a un brano classico, faccio mille e mille prove col mio orecchio per capire e, poi arriva allo spettatore che può dire, mi piace pure a me.»
Cosa le ha dato il teatro da un punto di vista umano?
«Il teatro è un gran padrone, s’impossessa veramente di te e, spesso e volentieri ti lascia povero come sei, il teatro non è il cinema, non è la televisione, non è una fiction, tu con il teatro sei legato allo spettatore, se lo spettatore viene e paga il biglietto, tu campi, se lo spettatore non viene, non paga, tu nun tiene sante!
Però sempre con questa libertà, questo rischio, che il teatro offre che, in qualche modo, è l’azzardo, la tentazione principale, poi, non lo dico più, non lo faccio, ormai lo faccio, come se mi avesse imprigionato e, certe volte ne voglio scappare, mi prendo delle lunghe pause, mi metto a fare altro, scrivo libri che non parlano di teatro, faccio dischi, oppure insegno, però torna sempre quel fatto che devi essere lì a testimoniare, perché il teatro attraverso il tuo corpo è una testimonianza. La testimonianza del presente.»
Lei è uno degli ultimi drammaturghi della tradizione culturale e classica napoletana, non ci sono molti autori a Napoli, ne sente il peso?
«Quando siamo usciti noi negli anni ottanta, Ruccello e quella generazione lì, pure a noi dicevano, quelli sono dei giovani, debbono dimostrare nel tempo che durano. Io sono quarant’anni che lo faccio, non per essere immodesto, ma ovunque sono andato, in Italia o per l’Europa, c’è stata una risposta, e, questo mi dà un attimo la misura del mio impegno. Oggi c’è una folta generazione di drammaturghi, alcuni mi mandano anche dei testi, degli scritti, però, devo dire, io sento poco, sento che c’è molta voglia di arrivare, senza aver capito perfettamente che c’è il gioco al massacro che il teatro ci propone, possono pure avere successo, ma se non hanno le ossa formate, se non si trasformano loro come individui, poi o fanno un altro mestiere e, infatti, molti di loro non li ho visti più, oppure si danno alla televisione, al cinema, però è una cosa diversa dal teatro. Nel cartellone del Napoli Teatro Festival di quest’anno, ci sono molte proposte dei giovani, io sono perfettamente d’accordo, perché le generazioni si devono avvicendare, non si sa mai uscisse qualche altro Ruccello!»
Esistono ancora le scuole vive del teatro napoletano, lontano dalle accademie?
«Ci sono accademie, ma i ragazzi non vogliono impegnarsi più di tanto, con il teatro non diventi né subito famoso né ricco meno che mai, loro montano un po’ il freno, perché giustamente vedono la televisione che ti sbatte in prima serata un perfetto sconosciuto, pure non talentuoso e la gente lo applaude, quindi si pensa ma il sacrificio è visto come una cosa ingiusta. Senza capire che il sacrificio è necessario per durare, e questo lo diceva il vecchio Eduardo, che castigava tutti i suoi attori, ferocemente, nel protagonismo, però alla fine aveva ragione lui. Ho lavorato recentemente con Isa Danieli, ho fatto TA-KAI-TA, Isa è l’ultima grande attrice del teatro italiano, se mi permetti, però, esce dalla scuola di Eduardo, che non gli faceva dire manco una parola in più, li metteva alle prove continuamente, li perseguitava. Io non sono così, sono un liberale, comunque, sostanzialmente una scuola di formazione ci vuole, non vale andare alla scuola solo per dire faccio teatro, ma poi che sei tu, sei teatro o ripeti a memoria la pappardella? Il discorso è dal fare teatro, a diventare teatro, che è un’altra cosa.»
Con Annibale Ruccello, lei ha fatto solo Ragazze sole con qualche esperienza?
«Abbiamo fatto diverse cose insieme, io scrissi per lui questo testo, Ragazze sole con qualche esperienza, lui mi fece una regia a me, per il mio primo testo, che si chiamava Scannasurece. C’è sempre stato questo gioco di scambi. Nell’ultimo anno della sua vita, nell’85 vincemmo insieme questi due premi molto importanti per il teatro, io vinsi il Riccione, neanche me l’aspettavo, e lui, il premio IDI con Ferdinando, e, poi nell’86 è successa la tragedia, per fortuna vive ancora attraverso i suoi testi che ancora oggi ripropongono, io lo ricordo con Compleanno, spettacolo dedicato ad Annibale, oramai, saranno circa cinquecento repliche in trent’anni. Ruccello era un ragazzo preparato, veniva dalla filosofia come me, non è che nasce così un Ruccello, lui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza come me, a leggere libri e a sentire musica, e, quindi, è venuto fuori questo genio.»
Siete stati molto amici?
«Amico fraterno, di estrema confidenza, eravamo ragazzi, parlavamo di molte cose, della nostra giovinezza, di come eravamo fatti noi e, ci sentivamo diversi, rispetto agli altri, quindi, delle cose molte belle, poi, veniva fuori anche uno spettacolo bello, però, rispetto all’umanità che esce fuori tra due persone è sempre molto di meno.»
Non c’era antagonismo tra di voi?
«Assolutamente no, anzi fu lui che scoprì me, perché mi venne a vedere una sera al San Carluccio, io non avevo ancora visto lui, in Le cinque rose di Jennifer, e lui vide me che facevo Scannasurece, entrò nel camerino e mi chiese di lavorare insieme. Voglio dire, uno quando è grande, c’è anche la grandezza di riconoscere nell’altro che c’è qualcosa.»
Si creano delle amicizie, delle affinità con gli altri colleghi?
«Mi vogliono bene tutti, non ho un atteggiamento narcisista. Quando ho lavorato e lavoro insieme a grandi attori, non cerco mai di culminare la luce su di me, e di oscurare l’altro, amo collaborare, questo è molto apprezzato. Certamente,c’è chi è più propenso a un atteggiamento del genere, chi è più narcisista, più protagonista, accentratore, ma questo fa parte della vita.»
Non è mai andato via da Napoli cosa la trattenuto?
«È un mistero, noi artisti spesso e volentieri ci allontaniamo per il nostro lavoro, poi non sono il solo, anche Isa Danieli, Antonio Casagrande abitano a Napoli. Io odio e amo questa città, per cui i miei rapporti familiari, i legami con la terra, anche le persone care che tu hai, sono qui, oddio se mi offrono un teatro da qualche parte e, lo devo gestire, io ci vado, non è che il destino ha voluto che restassi qui.»