Espressione simpatica, un neo sullo zigomo, barba spesso incolta, sguardo enigmatico, colori tipici del sud. Michele Venitucci, attore di teatro, cinema e televisione, diventato noto al pubblico per aver interpretato il ruolo del Tenente Giovanni Rinaldi nella serie televisiva “R.I.S. 3 – Delitti imperfetti”, a distanza di anni dal suo debutto sul grande schermo con il film del regista pugliese Sergio Rubini, con “Tutto l’amore che c’è”, dal 4 luglio ritorna, da protagonista, in sala con il film “Italians Movies” diretto da Matteo Pellegrini. “Italians Movies” è’ una pellicola corale che disegna un ritratto colorato della nostra società. Prodotto da Indiana e distribuita da Eagle Pictures, il film vanta un cast di attori di diverse nazionalità e racconta di un russo, Mako, un indiano Dilip e un italiano, Ben (Michele Venitucci), che lavorano come addetti alle pulizie in uno studio televisivo di proprietà di un cinico imprenditore. Per arrotondare uno stipendio da sottopagati, sfruttano lo studio per creare una piccola casa di produzione video clandestina per la realizzazione di filmati di matrimoni all’interno delle comunità straniere. I video riscuotono inaspettatamente un grandissimo successo che li spinge ad espandersi e gli studi vengono così letteralmente presi d’assalto da personaggi di varie etnie e nazionalità. Da una lunga chiacchierata con l’attore Michele Venitucci, pronto a svelarci qualche curiosità sul film, emerge un uomo serioso e professionale nel rispondere a domande sul cinema ma anche un giovane 40enne, esuberante nell’affrontare altre tematiche. Si professa single, ma con la voglia di una compagna, che possa seguirlo nei suoi continui spostamenti.
È appena uscito in sala il tuo film da protagonista, “Italians Movies”. Quali sono le emozioni che stai vivendo in questi giorni?
«La fase di gestazione e realizzazione di un film è lunga, ma pur sempre, ricca di emozioni. Ma la vera conclusione di un lavoro fatto bene, è ciò che riesci a suscitare nello spettatore. Mi piace vivere il contatto che un attore riesce ad impostare con il pubblico, quindi sono eccitato, emozionato, ogni volta in maniera differente. E questo accade ancor di più quando lavori con realtà più piccole, più deboli, che hanno bisogno di essere maggiormente sostenute. L’esperienza che mi porto dietro, mi aiuta ad affrontare questi momenti ma anche a proteggere il mio entusiasmo, che non smetterà mai di esserci.»
Un film, “Italians Movies”, che ripercorre il mondo di oggi. Dall’immigrazione clandestina, al precariato, dal lavoro nero, alla voglia di affermarsi e diventare “qualcuno”. Quando hai letto il copione, cosa ti ha spinto ad accettare il tuo ruolo?
«I motivi sono stati molteplici e, sicuramente, la presenza di un cast così variegato ed internazionale mi ha incuriosito moltissimo. In particolar modo perché racconta, per la prima volta, storie di extracomunitari visti in maniera più brillante, senza essere legati a dei cliché e senza, per forza, raccontarli dal punto drammatico o periferico, ma vedendoli come veri protagonisti di una storia. Sono l’unico italiano del gruppo e durante le riprese mi sono sentito quasi un outsider, protagonista di una storia multietnica che parla di una società che sta cambiando. E mi fa piacere essere precursore di una storia come questa. Perché, magari, tra dieci anni o forse meno, vedremo molti attori con colori e origini diverse, ma italiani. Ed è speciale questa fusione tra popoli. Ho accettato poiché l’ho ritenuto fin dall’inizio un progetto attuale e vendibile.»
Nella tua carriera hai lavorato molto sia per il cinema che per teatro e televisione. Quali sono, per te, le differenze o i limiti di queste forme di recitazione così diverse tra loro e quali preferisci.
«Credo che un attore si debba saper cimentare con tutte le forme di recitazione. Il teatro
sicuramente ti avvia, innanzitutto alla professione, al lavoro delle prove. Ed è un’espressione diversa perché ha una continuità nel tempo. Ha, sì, un inizio ed una fine temporale, ma cambia ogni giorno anche se è la stessa replica. Cambiano le emozioni. Nel senso che, pur portando in scena sempre lo stesso spettacolo, grazie al rapporto diretto che si crea con il pubblico, l’emozione è più forte. Inoltre, è tecnicamente diverso da Tv e cinema, perché lavori sulla gestualità. Il cinema invece racconta delle storie, o tenta di raccontarle, vedendole attraverso una lente di ingrandimento. Lavori sull’intimità di una storia da interpretare e sulla sensibilità dei personaggi. Quanto alla televisione, i tempi sono molto più veloci. Devi imparare a concentrarti in pochissimo tempo e lavori sull’esperienza e sulla tecnica. Tutte e tre le forme di recitazione sono importanti e a mio avviso, ogni attore, dovrebbe provarle. Tra le tre ho lavorato di più per il cinema, ma a dire il vero quella che mi affascina di più è sicuramente il teatro, poiché riesci ad avere un contatto più profondo con il pubblico. E mi piacerebbe ritornare a farlo con maggiore frequenza.»
Hai dichiarato che nel mondo artistico, bisogna continuamente studiare. Come studi un personaggio?
«Credo molto nel rispetto della professionalità. Nel momento in cui questo aspetto è venuto meno, si è abbassata un po’ la guardia. La televisione, più volte, ha illuso lo spettatore di sentirsi protagonista aprendo le porte, nel bene e nel male, a tantissima gente non “professionista”. Invece, il vero perfezionamento, penso che nasca attraverso lo studio. L’interpretazione di un personaggio, penso che dipenda molto anche dal tuo percorso di vita e dalle tue esperienze. Personalmente, con il tempo, finiti gli studi e finita l’accademia, ho voluto approcciarmi al lavoro di attore, attraverso una mia passione. Quella di esplorare nuovi posti. Al centro di questa mia formazione, infatti, ho deciso di mettere proprio i viaggi. Viaggio inteso, realmente, come spostamento fisico e geografico. Perché un attore deve arricchirsi di storie e di esperienze. Spingersi verso altri mondi e culture. Racchiudere quei ricordi negli occhi e farli filtrare attraverso il personaggio. E quindi, con un po’ di fantasia e un po’ di esperienza propria, si crea un mix perfetto.»
Oltre a prendere con tanta serietà questo lavoro, sai anche essere ironico. So che hai scritto un monologo divertente sul neo che hai sullo zigomo. A prova che un piccolo difetto, preso con maturità, può diventare un segno distintivo.
«Il mio neo, sì. La sua fama, mi ha sempre preceduto. Ho voluto giocare con l’idea di dargli voce. Di far lo“parlare”. Da piccolo, lo vivevo come un complesso e lo nascondevo spesso con una mano, ma crescendo è diventato quasi un dettaglio che mi rendeva diverso. Per cui ho scritto un monologo divertente nel quale lo stesso neo, parlava con lo psicanalista non sentendosi accettato in questo mio corpo. Adesso che sono adulto, mi piace giocare su questa parte di me. Soprattutto oggi che viviamo in una società dove siamo tutti quasi omologati, dove i canoni di bellezza devono essere sempre perfetti. Sostengo, invece, che sulle nostre imperfezioni dobbiamo creare una nostra personalità e renderle armoniche con noi stessi. E dato che pochi modelli si pongono in questo modo, l’attore che invece, riesce a giocare dei suoi difetti, trasformandoli in particolarità, credo sia assolutamente un esempio da emulare, oltre che un lavoro terapeutico su se stessi.»
A causa della tua passione per i viaggi, ti sei definito spesso un nomade. Ma sei nato a Bari e, come ogni “figlio del Sud”, sei legato alla tua terra. Cosa ti è mancato dei tuoi luoghi d’origine?
«Essendo figlio del sud, ho questa doppia vita vissuta tra l’amore per la mia terra ed il bisogno di dover andare via. Quasi come fossi obbligato e che, a mio avviso, è un’occasione importante ma anche un rammarico. Però, talvolta, è necessario, come staccare il cordone ombelicale. Anche perché da lontano, ti riappropri di più del tuo posto. Riesci ad apprezzarlo meglio e ad amarlo di più. Perché, come tutte le cose che sono viscerali – importanti, come la famiglia – a volte non si riesce a comprenderle profondamente. Senti grandi sentimenti, ma uno di questi, a volte, è l’odio. Ad esempio non sopporti un posto, però andando fuori, ti accorgi che riesci a rivalutarlo e lo osservi anche nei suoi limiti. Nonostante il mio girovagare, però, dopo un po’ sento sempre l’esigenza di tornare a casa. Perché alla fine, è come un viaggio di Ulisse. Del resto, un viaggio ha senso al suo ritorno, perché racconti i ricordi che ti ha lasciato. E lo trovo anche un privilegio.»
Il ricordo più bello di questi viaggi…
«Sicuramente il viaggio che ho fatto in Sud America per tanti mesi. Avevo in progetto di visitare solo Buenos Aires. Avevo da poco finito una serie televisiva, avevo tempo libero e dei soldi da parte. Da Buenos Aires, invece, il viaggio è proseguito per tutto il Sud America. È stata per me un’esperienza di grande cambiamento e di grande consapevolezza, poiché visitando luoghi poverissimi come la Bolivia e il Perù, sono tornato con la convinzione che quella che noi, attualmente, definiamo crisi, non ha nulla a che fare con quella che questi popoli, sono costretti perennemente a vivere. Questo è stato il mio primo viaggio da solo che ha arricchito la mia esistenza, proprio per questo, è stata un’esperienza speciale della quale ho scritto delle cose e, di sicuro, ne scriverò delle altre.»
Oltre a questo tuo girovagare, se dovessi fermarti un attimo, come ti vedi tra 10 anni…
«Ci rifletto continuamente. E ho capito che il mio girovagare, non è più un fuggire alla ricerca del posto ideale, poiché non credo che ci sia un posto ideale, come non credo che ci sia una donna ideale. Però, ci sono degli aspetti che uno deve cercare. A tal proposito, curo anche un diario dal titolo “che ci faccio qui” sulla rivista “style.it”, che parla di quel malessere continuo che si avverte quando ti trovi in un posto e non sai se è quello giusto. Però adesso, nonostante stia crescendo, sento che il mio essere itinerante, rimarrà una costante nella mia vita. Perché fa parte della mia personalità. Però vorrei avere, più che mai, un posto dove saper tornare alla fine del viaggio. E quel posto sarà proprio al Sud, in Puglia. Non sarà Roma, dove vivo da 18 anni. Sto pensando di trovarmi una base lì. Adesso non ho figli e, anche quando li avrò, spero di avere una compagna che possa, anche in base alle sue esigenze di lavoro, spostarsi insieme a me e rendere “mobile” la nostra famiglia, in modo da far sì che la curiosità sia l’ingrediente necessario per accrescerci.»