Dovendoli definire i Der Noir sono sicuramente scuri appunto, ed il mio primo impatto con la loro musica è stato proprio come trovare, in un vicolo scuro, un luminoso gioiello. Suoni decisi, mai banali, un’atmosfera onirica travolgente, alla quale difficilmente ci si riesce, ma sopratutto ci si vuole, sottrarre. Energia e tanta qualità per questa giovane realtà della musica italiana, e non vi sognate nemmeno di incontrare degli zombi in stato comatoso depressivo perché sono tutto meno che questo. Talento pronto a svelarsi a chi voglia scoprirli ed interpreti di una tecno new wave a mio giudizio estremamente interessante. Insomma loro sono dark, ma noi accendiamo volentieri un enorme riflettore sui Der noir.
Partiamo dal principio, ci spieghi il titolo numeri e figure ma sopratutto ci descrivi l’album, cioè cosa si deve aspettare chi lo ascolta?
«È sicuramente la prosecuzione del nostro primo lavoro uscito l’anno scorso. In Dead Summe c’era una precisa volontà nell’usare un certo sound tipico degli anni 80; in questo secondo lavoro abbiamo voluto invece osare un po’ di più, metterci un po’ più di noi, per cui ci si deve aspettare sicuramente un disco di musica elettronica, new wave, contaminato dal rock, con comunque un certo richiamo alle sonorità degli anni 80, ma siamo andati anche oltre.»
Definirei le vostre sonorità e le atmosfere dei vostri pezzi quasi oniriche, ma, vista anche la complessità strutturale dei pezzi, mi racconti come si svolge la vostra fase creativa, come nasce un vostro brano?
«Rispetto ad una band classica, i nostri pezzi nascono al contrario. Noi non abbiamo una sala prove, ci vediamo in sala di registrazione, buttiamo giù direttamente i brani e poi li impariamo a suonare. Magari si parte da un giro di batteria elettronica o un giro di basso o di chitarra e poi gli altri arrangiano su quei giri, così vediamo subito se il tipo di arrangiamento ci piace, perchè lo incidiamo. Dopo aver inciso e post prodotto il brano , lo mixiamo, una volta finito, solo allora impariamo a suonarlo per poterlo riproporlo dal vivo.»
I messaggi che veicolate attraverso la vostra musica non appartengono alla cultura musicale di grande diffusione italiana, credete di trovare più difficoltà rispetto ad altri, nel farvi conoscere al pubblico, ma sopratutto nel proporvi alle case discografiche?
«Non direi che troviamo più difficoltà rispetto ad altri; ormai il mercato si è talmente ristretto che anche i grandissimi nomi fanno piccole tirature. Il mercato discografico è veramente crollato con l’avvento del digitale, e in un paese come il nostro, dove i grandi mezzi di diffusione, come radio e tv, non danno spazio alle band emergenti, ma si concentrano solo su quello che loro stessi hanno deciso essere la musica italiana, sicuramente non è facile. Ma noi guardiamo con un occhio di privilegio comunque all’Italia, tanto è vero che cantiamo, si in inglese, ma anche in italiano(e l’idea è comunque di andare sempre più verso la lingua italiana),anche perché se pur sembra strano anche all’estero quando sentono l’italiano, sarà perché suona esotico, ma apprezzano, ti parlo dell’estero perché, pur vivendo e suonando per lo più a Roma, è in paesi come l’Olanda o la Germania dove il nostro sound viene recepito meglio probabilmente.»
Parliamo proprio della scelta linguistica nei vostri pezzi; l’inglese è una scelta strumentale perché vi rende più facile esprimervi o perché?
«È una questione di mera esigenza; noi non partiamo mai dai testi ma dalla musica, quindi quando poi Manuele(il cantante) si mette e lavorare sul testo di una canzone, che ha già la sua struttura musicale, sceglie indifferentemente l’inglese o l’italiano seguendo un po’ il mood del pezzo stesso. Poi scrivere in inglese non è più semplice, anzi, perché non essendo la nostra madrelingua, comunque non siamo mai certi di poter esprimere veramente quello che volevamo dire senza risultare banali. Così come scrivere in italiano è difficile perché essendo invece la nostra lingua, abbiamo dei paragoni molto alti con i quali fare i conti.»
Avete aperto il concerto romano dei duran duran nel 2012, vi ha stupito questa chiamata,e al di la dell’uso di certi strumenti, cosa credete di avere in comune con la band inglese e cosa secondo te vi ha fatto scegliere?
«Le affinità ci sono nel suond degli anni 80 di cui parlavamo prima, e per noi è stata una grandissima occasione, più unica che rara. Magari essere come i Duran Duran, ci piacerebbe molto. Ma fammi spezzare una lancia a favore dei piccoli club, realtà che comunque noi preferiamo; l’atmosfera più intima, il palco basso insomma il contatto molto più diretto con il pubblico, sicuramente è una realtà che ci sentiamo più addosso. Fare i grandi concerti è chiaramente una grossa vetrina, ma per le nostre esperienze preferiamo suonare letteralmente in mezzo alla gente.»
Ci sono musicisti italiani che vi piace ascoltare?
«Per i grandi nomi di adesso non saprei proprio che dirti, perché secondo noi c’è stato un livellamento mostruoso verso il basso con l’avvento dell’hip hop italiano.L’Italia ha regalato a partire dagli anni 70, parlando di rock, grandissimi nomi. Noi ci sentiamo molto legati ad una scena wave che sta nascendo anche se a dire la verità in Italia i promoter spesso non spingono gli artisti nostrani ma preferiscono cavalcare il successo di band straniere. In altri paesi come la Francia, il grosso della musica che si ascolta è francese, a Berlino si spinge la scena locale. A noi piacerebbe si facesse anche più comunità fra di noi, creare una rete di gruppi italiani, così da non relegare la musica italiana a mero supporter di qualcun altro.»
Che tipo di rapporto avete con chi vi segue?
«Siamo sempre disponibili per chi ci contatta, lo facciamo noi di persona, siamo facilmente reperibili su facebook ecc. E’ vero che facciamo una musica un po’ dark, ma siamo persone piene di vita, animali sociali, sempre pronti al confronto, e abbiamo sempre piacere a scambiare quattro chiacchiere con molto piacere, sia sui social network ma anche a ridosso dei concerti.»
Accennavi alle atmosfere dark della vostra musica, ma ascoltandovi io invece ho avvertito quanto meno una scintilla di speranza, sbaglio?
«Il progetto Der Noir è nato sopratutto perché tutti noi avevamo esigenza di scrivere canzoni. Tutti noi veniamo da un passato musicale abbastanza estremo ed estremista, dal black metal alla tecno ecc, quindi dopo avere fatto tante produzioni in strutture libere e aggressive, avevamo questa esigenza di scrivere canzoni e ci siamo ritrovati a buttare giù questi due album. C’è sempre una visione abbastanza decadente dell’esistenza, ma secondo noi c’è qualche speranza, non è tutto uno schifo, e noi proviamo ad interpretare anche questo.»
Appuntamenti live?
«Suoniamo a Roma e un po’ in giro, certo in questo momento storico è sempre molto difficile, comunque noi vogliamo suonare per cui saremo in giro e tutti gli appuntamenti sono sul sito ovviamente.»