C’è tutto il suo spirito pop, quello che gli deriva da avidi consumi di dischi e libri degli ultimi decenni. Ma questa volta Marco Drago, lo speaker radiofonico e autore , per il suo nuovo college novel La Prigione Grande Quanto Un Paese (Barbera), fa di più: ci porta a spasso nel tempo, in una Germania dell’Est vista con gli occhi di un ragazzo di provincia italiana. Un vero “time-frame” che incapsula con irriverenza e scortesia un dualismo intrigante che non c’è più, ovvero la differenza tra est e ovest (almeno nel Vecchio continente).
Il libro è colto ma leggero, introspettivo e involontariamente sociologico. Ma infarcito com’è di riferimenti rock e vivaci sketch a volte esilaranti ha catturato la nostra attenzione. E ce lo facciamo spiegare dal diretto interessato.
Torni alla scrittura dopo aver pubblicato per Feltrinelli e altri. Un passo meno serioso nella tua carriera?
«Ho pensato che se dovevo ricominciare a scrivere, sarebbe stato meglio pescare nei ricordi. E una delle esperienze più formative nel bene o nel male per me è stata la vacanza in Germania dell’Est che ho fatto nel 1988. La cosa strana è che oggi non si ha la minima idea di cosa volesse dire a poche ore di treno, vivere in una maniera così diversa. Per fare un’esperienza analoga forse un ragazzino del 2013 dovrebbe andare in Oriente o Africa.»
Ci sono delle considerazioni politiche nel romanzo, ma anche tanto divertimento tra ragazzi, con delle descrizioni coinvolgenti della vita che il protagonista fa nel campus studentesco.
«È un memoir in prima persona, l’ho descritto ripescando nei ricordi di quel mese trascorso a Magdeburgo quando avevo poco più di 20 anni. Nessuno si sarebbe immaginato che poco più di un anno dopo la storia dell’Europa sarebbe cambiata per sempre con la caduta del muro di Berlino. Ci sono un paio di episodi di fiction ma è il mestiere dello scrittore contaminare ricordi e fantasia. Quello che mi premeva comunicare era la differenza tra i giovani di allora e quelli di oggi. L’incontro con giovani dell’est e un italiano, che si reggevano tutti sulle differenze culturali. Nel 1988 gli italiani erano visti come portatori di una civiltà occidentale che era assolutamente sconosciuta all’est.»
La musica ha un grande spazio nel racconto, come mai?
«Perché bastava avere una rivista musicale in mano ed eri un idolo nella Germania dell’Est. I cantanti, i rocker erano degli idoli sconosciuti e lontanissimi, ma suscitavano curiosità e anelito di libertà. Anche se come dico nel libro spesso i giovani non ammettevano di vivere in costrizioni. È ovvio che per me la democrazia e la libertà sono valori imprescindibili, ma c’era anche tanto fascino per chi veniva da fuori.»
Estate 1988, quale poteva essere la vostra colonna sonora?
«Io ascoltavo Prince, Morrisey. Cose poco commerciali pensando a quell’epoca. Ma sicuramente era un modo per far centro con le ragazze. E questo interesse che suscitavano le canzoni che mi ero portato nelle musicassette sopperiva in qualche modo al senso di inadeguatezza che avevo con me. È stata un’esperienza molto ingombrante per uno come me che non era mai andato all’estero da solo.»
È un terreno esplorato da libri e film, come Goodbye Lenin. Come lo hai reso tuo?
«Con la rievocazione dei 20 anni dalla caduta del muro si è parlato molto delle differenze che c’erano ma il mio racconto ha anche un imprevisto drammatico, quando parlo dell’esperienza dell’arresto perché non avevo il passaporto. Dover avere a che fare con quel tipo di autorità a un’età così giovane mi ha segnato. Come mi toccava molto questa idea romantica di una gioventù lontana dal consumismo, più autentica.»
Sei un fan dei campus novel?
«Da Donna Tartt in poi me li sono letti tutti. Ma il contorno che ho vissuto io era diverso. L’ambiente faceva schifo, sembrava un altro mondo. Poi i comportamenti giovanili sono un po’ gli stessi ovunque, c’era lo sballo, la promiscuità, e c’era anche questa differenza di potere. Gli occidentali che passavano la cortina di ferro erano visti come ricchissimi, potevano comprare tutto, poi il fatto che ci fosse poco da comprare era un altro discorso. Ti sentivi privilegiato, se non proprio oggetto di invidia per le possibilità che avevi e che agli europei orientali erano negate.»