Dopo l’anteprima nazionale al Ghirelli di Salerno e i debutti torinese e milanese, arriva alla Sala Assoli di Napoli Giorni Felici di Samuel Beckett, presentato da Melampo/Fondazione Teatro Stabile di Torino, con Nicoletta Braschi e Roberto De Francesco, regia di Andrea Renzi (repliche fino a dom. 15 Dic.; feriali ore 20:30, dom. ore 18:00).
Rappresentato per la prima volta in Italia nel 1965, a quattro anni dal debutto newyorkese, al Gobetti di Torino (dov’è tornato quest’anno), il testo è un classico dell’assurdo novecentesco in cui una donna, sepolta a metà nel terreno della quotidianità del vivere, dà sfogo a una logorrea insopprimibile (“C’è così poco da dire che si finisce per dire tutto. Ma niente corrisponde al vero.”) al cospetto di un compagno quasi muto che subisce il di lei inno alla vita. Nonostante tutto. Lei (Winnie) impossibilitata a muoversi, lui (Willie) impossibilitato a parlare attendono, in un non luogo desertico, l’arrivo di un nuovo giorno, la loro vita scandita da due campanelli che sanciscono i momenti di veglia e di sonno e dalla muta e inquietante presenza di una pistola. E l’assurdo è proprio in questo strenuo attaccamento alla vita, in questo ringraziare ogni giorno un dio assente come il sole, il cui sorgere e tramontare sono sostituiti da un asettico segnale acustico.
La regia di Renzi è più attenta a restituire una visione corretta e pulita del testo (complice la filologica traduzione di Carlo Fruttero per l’Einaudi) che a dare un’impronta originale a ciò che è ormai diventato un classico visto e rivisto. Solo, la sabbia qui è sostituita dalla roccia, unico elemento scenico insieme a un pannello/separé, volutamente finti, a sottolineare l’idea di una rappresentazione della realtà che si danno i personaggi. Così come i costumi, concepiti – come le scene – da Lino Fiorito, che ricordano un po’ i felliniani Ginger e Fred, e il piazzato luci di Pasquale Mari. L’impressione è che si poteva andare oltre. In compenso, la Braschi appare convincente in questa che si può considerare una vera prova d’attrice. Il soliloquio è affrontato con calma e tempi giusti, con studiati guizzi che fanno da contrappunto a momenti di più sofferta malinconia. Il suo candore ricorda, anche qui, la felliniana Gelsomina. Un testo che immobilizza il corpo dell’attrice (nell’ultima parte è visibile solo la testa) affida tutto alla mimica facciale e, quanto a questo, la Braschi ne ha da vendere, dimostrando di essere un’attrice molto organica. Supportata, qua e là, dai brevi ma incisivi interventi di un De Francesco inquietante e fisicamente all’altezza del suo compito.
Si può vedere.